La violenza nello sport: quando protagonisti sono i giovani

 

 

Quando parliamo di violenza nel mondo sportivo sicuramente ciascuno di noi pensa al mondo del calcio, alle risse e agli scontri che avvengono sugli spalti tra tifosi avversari, in occasione delle partite di campionato di serie A o della Champions League. Purtroppo i recenti fatti di cronaca offrono uno spaccato più ampio del fenomeno. Innanzitutto protagoniste sono le squadre minori, le squadre di paese, se così le possiamo definire,  dove i padri di famiglia – qualche volta anche le madri- sbraitano con toni oltraggiosi verso l’arbitro o l’allenatore mettendo in discussione il loro operato, o peggio ancora offendono verbalmente i giocatori della squadra avversaria che potrebbero essere i loro figli. In questi campi da calcio la violenza non viene agita solo a livello verbale ma anche a livello fisico: proprio qualche settimana fa, in una squadra giovanile della provincia di Arezzo, un padre ha picchiato l’allenatore perché il figlio ha giocato poco. Lo sport  è un’agenzia educativa che può e deve offrire valori nobili, ma se gli adulti che dovrebbero sostenere questo obiettivo ed essere dei punti di riferimento si comportano così, che cosa ci aspettiamo dai piccoli sportivi? La violenza genera violenza: se un genitore agisce in maniera violenta “autorizza e legittima” il figlio a fare altrettanto. Non c’è da meravigliarsi allora se gli episodi di bullismo nel mondo sportivo sono in crescita.

Spetta a noi adulti dare il buon esempio: i più giovani apprendono dal nostro comportamento. E quando protagonisti sono i bambini della scuola calcio, o comunque i piccoli atleti di una qualsiasi disciplina sportiva, non dobbiamo assolutamente dimenticarci che l’obiettivo primario di tutti deve essere quello di farli divertire in un ambiente sereno e sano. Probabilmente questo obiettivo è noto a tutti i genitori, anche se purtroppo conseguito e sostenuto da pochi. La domanda sorge spontanea, come mai? Troppo spesso capita di proiettare sui figli gli obiettivi che non abbiamo saputo raggiungere nel tentativo di una rivalsa personale, caricando così i più piccoli di pressioni e aspettative che li tengono lontani dal divertimento e da una crescita sana. Il peso di questo stress porta i bambini a lasciare troppo precocemente il mondo sportivo e a starne lontani anche per anni; le conseguenze dell’abbandono sportivo non le si osservano solo sul piano fisico ma anche (e soprattutto) sul piano psicologico: per molti bambini un’esperienza così emotivamente pressante è a tutti gli effetti un trauma. Interpellare lo psicologo quando il danno è stato fatto è fondamentale, anche se il suo coinvolgimento sarebbe prezioso precocemente, per prevenire l’insorgenza degli episodi di violenza degli adulti sul campo. La presenza di uno psicologo dello sport che lavora a fianco dell’allenatore, della società e delle famiglie rappresenta una risorsa, un riferimento indispensabile che offre loro supporto e assistenza al fine di garantire un sano sviluppo fisico, psicologico e sociale di bambini e ragazzi. Deve essere una figura che fa parte integrante dell’organico e presentata a tutti come tale: solo così si può creare un circolo virtuoso di fiducia reciproca, fondamentale per affidarsi e farsi aiutare. Troppo spesso gli psicologi vengono chiamati a contenere gli effetti del danno, inserendosi come “ospiti  indesiderati” in un contesto relazionale che li vive più come un pericolo che come un aiuto concreto. Purtroppo il peso dei pregiudizi rispetto alla categoria è ancora schiacciante. Ma se vogliamo promuovere e garantire il benessere dei nostri piccoli sportivi, non possiamo e non dobbiamo essere vittime delle nostre paure, dobbiamo vincere il pregiudizio e affidarci alle mani di un esperto che si occupa dei giovani e delle loro famiglie.

Dott. ssa Eleonora Ceccarelli 

Psicologo dello sport o mental coach? Assolutamente il primo. Il lavoro sulla mente è una cosa seria.

Scrivo questo articolo prendendo spunto dalla mia esperienza sul campo- e in alcune occasioni fuori dal contesto sportivo- con l’obiettivo di fare chiarezza sulla professione di psicologo e di tutelarla. L’ultima perla inerente la figura dello “strizzacervelli” risale a qualche giorno fa, in gelateria, dove intraprendo una chiacchierata con un’amica di una mia parente che di fronte alla mia presentazione professionale mi risponde di essere mental coach e taglia corto. Purtroppo, nel corso degli ultimi anni, il mental coach in ambito sportivo è diventata una figura in forte espansione e aumentano gli allenatori e gli sportivi che ci si affidano in modo da preparare anche mentalmente ed emotivamente gli atleti alle sfide sportive. Anche allenatori famosi, soprattutto in ambito calcistico come riportano le testate giornalistiche sportive più diffuse, si sono affidati a questa figura professionale per migliorare le prestazioni dei propri giocatori. Probabilmente il mio “purtroppo” all’ inizio del discorso vi ha già fatto intuire il mio punto di vista. Il mental coach per fare il suo lavoro si avvale di una formazione, dove acquisisce degli strumenti e delle tecniche che aiutano i propri clienti/atleti a tirare fuori le proprie risorse.  E’ sufficiente avere partecipato a un corso di pochi giorni o essere stato un atleta o avere una laurea in qualsiasi ambito; non è previsto alcun tipo di formazione universitaria specifica riconosciuta e può essere svolta da chiunque decida per motivi personali di intraprendere questo lavoro nello sport.
Persone di questo tipo sono sempre esistite in ogni professione, dagli esperti in benessere che propongono terapie mediche, ai personal trainer non laureati in scienze motorie, a chi si propone come allenatore solo perché ha svolto un determinato sport per molti anni. Ma siamo sicuri che tutto questo sia sinonimo di qualità ma soprattutto una tutela per il benessere e la salute delle persone?
E qui aggiungo un altro purtroppo. In questi ultimi anni, il termine “mental coach” è diventato un’espressione piuttosto diffusa per connotare una persona esperta nell’ allenamento delle abilità mentali. Ma prima di riempirsi la bocca di questo termine qualcuno sa chi è cosa fa il mental coach? E se questa parola può essere un sinonimo a tutti gli effetti di psicologo?
Lo psicologo, dopo un percorso che lo ha portato alla laurea magistrale, al tirocinio di un anno, all’esame di Stato e all’ iscrizione all’ ordine degli psicologi, è il professionista che è legalmente abilitato a fornire questo tipo di prestazioni. Esiste un albo regionale dove è possibile verificare l’iscrizione del professionista che, tra le altre cose, deve rispettare un codice deontologico.
La psicologia dello sport è la disciplina che nell’ ambito delle scienze dello sport e della psicologia, rappresenta il riferimento teorico e applicativo per l’esercizio di questa professione. Per lavorare in questo ambitolo psicologo deve formarsi ulteriormente attraverso corsi di perfezionamento o master che lo abilitano al lavoro con gli sportivi.
Mental coach e psicologo non sono due professioni equiparabili, sono due figure differenti, con obiettivi, strumenti ma soprattutto responsabilità diverse.
Non affidatevi a chiunque, prendete tempo e approfondite la formazione del professionista che avete individuato.
Fonti:
 https://www.ordinepsicologitoscana.it/gruppi-lavoro-articolo.php?idp=4089

Uno per tutti, tutti per uno! Il lavoro dello psicologo dello sport all’interno di una squadra

In diverse occasioni ho parlato del ruolo dello psicologo in campo; in questo articolo vi illustrerò il lavoro con una squadra.

Quando uno psicologo dello sport inizia un percorso con una squadra, il suo operato non può prescindere dal coinvolgimento del coach. Questo è il primo intervento in campo. E’ fondamentale stabilire con l’allenatore una relazione di fiducia e di scambio reciproco. Perché?

Perché l’allenatore ricopre il ruolo di leader all’ interno di una squadra, guidando i suoi atleti nel complesso dell’attività sportiva che li accomuna. E dunque, anche la riuscita di un lavoro di preparazione mentale per il gruppo dipende dalla sua figura, che diventa quella di facilitatore delle tecniche che lo psicologo insegna alla squadra.

Secondo step importante nel lavoro con una squadra è favorire e costruire il senso di appartenenza al gruppo, ovvero creare la mentalità del “noi”. Lewin (1972) ha definito il gruppo come “una totalità dinamica in cui i membri si trovano in un rapporto di interdipendenza e perseguono un fine comune”. Il gruppo non è la somma dei suoi membri e delle loro caratteristiche personali, è qualcosa di più: il suo elemento distintivo sono le dinamiche che si creano al suo interno. Se il discorso si focalizza sulla squadra sportiva, essa può esser definita come un piccolo gruppo orientato al compito e alla prestazione, i cui membri sono interdipendenti, vogliono raggiungere un fine condiviso e sviluppano una identità collettiva. Sono contemporaneamente coinvolti nello sforzo fisico individuale teso al raggiungimento di questo fine, consapevoli che la realizzazione di questultimo dipende dalla collaborazione e dall’ integrazione delle peculiari capacità e caratteristiche di ogni individuo con il resto del gruppo. Il lavoro dello psicologo ha l’obiettivo da una parte di promuovere la nascita e lo sviluppo di sentimenti e atteggiamenti positivi verso l’ ingroup; dall’altra, incoraggiare e dare visibilità a questo senso di appartenenza che è l’essenza stessa del gruppo. Per capire meglio, vi faccio un esempio. Sicuramente tutti voi conoscerete la danza degli “All Blacks”, i giocatori della nazionale neozelandese di rugby , i quali all’ inizio di ogni partita eseguono un complesso rituale maori di fronte agli avversari. L’avere qualche cosa di comune favorisce infatti l’identificazione reciproca tra i membri e la demarcazione dagli altri gruppi.

Infine, ma non per importanza, se la squadra è composta da bambini e adolescenti, il lavoro dello psicologo e dell’allenatore deve coinvolgere anche i genitori.

“Uno per tutti, tutti per uno!” non è solo il motto dell’allenatore e della sua squadra ma deve diventare anche quello dei genitori. E’ grazie a quest’ultimi, al loro prezioso ruolo di supporto nella vita sportiva dei figli, che gli obiettivi fissati e i risultati da raggiungere possono essere conquistati. Per mantenere un buon rapporto con i genitori è fondamentale incontrarli prima di ogni stagione per condividere le modalità operative e comprendere quali sono le loro aspettative. Molto spesso è proprio a questo livello, a livello delle aspettative, che si insinuano criticità tra allenatore, famiglie e società e dunque il supporto dello psicologo può fare la differenza.

 

Se siete interessati ad un approfondimento o ad una consulenza gratuita, scrivetemi a questo indirizzo: info@eleonoraceccarellipsicologa.it

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Lodare è salutare, esagerare con le lodi è diabolico!

Chi non ha bisogno di riconoscimenti, scagli la prima pietra!

Tutti ne abbiamo bisogno: noi adulti ma anche (e soprattutto!) i bambini. Si tratta di un bisogno fondamentale per la nostra salute fisica e mentale, esattamente come il bisogno di nutrirsi o di dormire.

L’adulto, genitore, allenatore o insegnante, che attribuisce riconoscimenti positivi potenzia nel bambino  la disponibilità ad ascoltare e ad apprendere. Non solo, comunica fiducia e sicurezza al piccolo rispetto alle sue capacità. Attenzione però: affinché le lodi siano funzionali  allo sviluppo psicologico  di un bambino, devono essere fondate,  riferite cioè ad un fatto reale e concreto. Facciamo un paio di esempi. Esempio uno: “Hai fatto bene a presentare al professore i tuoi dubbi sulla gita. Sei stato davvero sincero e l’insegnante lo ha apprezzato. Esempio due: “Complimenti per la gara che hai disputato, sei stato molto bravo. Era una competizione difficile e ti sei dimostrato determinato fino alla fine nel raggiungimento degli obiettivi che ti eri prefissato. Ti sei impegnato molto quest’anno, organizzandoti diligentemente con la scuola e con gli impegni del tempo libero. Te lo sei meritato”.

In questi casi, il riconoscimento dell’adulto riguarda un’ azione specifica agita dal minore: così facendo il genitore/allenatore sottolinea che quel comportamento è ritenuto positivo e dunque il bambino si sente legittimato e motivato a consolidarlo e a ripeterlo in occasioni successive. Nono solo. Il fatto che sia fatto riferimento all’ impegno impiegato per ottenere il risultato è importante: lavorare duramente per raggiungere un obiettivo è una preziosa spinta motivazionale che va  sicuramente sostenuta e incoraggiata. Spesso il fatto di sforzarsi e di impegnarsi viene vissuto come qualcosa di meno importante dell’essere intelligenti. Ma a scuola,  nello sport e in generale nella vita, ogni traguardo da raggiungere si prefigura come una sfida che richiede impegno; per questo motivo, meglio lodare i bambini per le qualità che possono controllare (come l’impegno appunto), affinché considerino le nuove sfide come opportunità per apprendere ma soprattutto per andare avanti nel percorso di crescita, con la consapevolezza che si possa sempre migliorare.

Espressioni di questo tipo invece: ”Sei eccezionale!”, “Quanto sei intelligente!”, Come sei brava”, “Sei davvero un campione” sono lodi non riconducibili ad un’ azione ben precisa; il rischio è quello  di produrre una generica “sviolinata”  che ha effetti negativi sullo sviluppo della personalità  del minore e  sulla relazione tra adulto e bambino.

Quando noi adulti diciamo qualcosa a un bambino indirettamente diciamo qualcosa su di lui. Ogni messaggio che gli viene inviato quindi gli comunica cosa pensiamo di lui e gradualmente il piccolo si costruisce un’immagine di come lo percepiamo come persona. Per questo motivo, qualsiasi comunicazione ha un impatto non solo sull’interlocutore ma anche sulla relazione che abbiamo con lui. Ogni volta che parliamo con i più piccoli, bambini ma anche adolescenti,  aggiungiamo un altro pezzo al puzzle che stiamo costruendo insieme.

I più piccoli hanno bisogno della nostra approvazione per diventare adulti. Non dobbiamo privarli dei nostri elogi per quello che hanno fatto se lo hanno fatto con passione e impegno. In questo caso la lode rappresenta un incoraggiamento: quando abbiamo lavorato duro e fatto un buon lavoro ci fa piacere che gli altri riconoscano e apprezzino il nostro impegno.

Valorizzare  il risultato o il talento , non accresce l’autostima, tutt’ altro;  in queste situazioni è stato osservato che i bambini  hanno difficoltà a tollerare le frustrazioni legate agli insuccessi che nella vita possono  inevitabilmente presentarsi;  inoltre,  manifestano maggiore insicurezza  di fronte alle difficoltà e sono  tendenzialmente  più resistenti a mettersi in gioco per migliorare i propri punti deboli.

Insomma, le lodi servono ma ci vuole misura nel complimentarsi con i propri figli per i piccoli o grandi successi quotidiani.

“AIUTO, NOSTRO FIGLIO HA L’ANSIA!”Perché viene l’ansia, come prevenirla e come comportarsi quando arriva?

Dietro sintomi ansiosi ci sono i vari stress ai quali sono sottoposti i bambini e i ragazzi. Anche lo sport, nonostante gli innumerevoli benefici, può provocare malesseri e tensioni. L’ansia è forse la problematica più comune vissuta dai giovani atleti.

Perché viene l’ansia, come prevenirla e come comportarsi quando arriva?

Punto di partenza fondamentale è quello di imparare a leggere l’ansia come un messaggio: un figlio sta comunicando con il corpo qualcosa che a parole non riesce a dire ed anche se soffre per questo, i genitori non devono assolutamente farsi prendere … dall’ ansia!

Detto questo, la domanda successiva che spesso mi viene posta dai genitori è la seguente: “Sì va bene, ma come ci dobbiamo comportare?Non esiste un approccio giusto ed efficace per tutti, perché molto dipende dalla situazione individuale che ha originato l’ansia: l’ideale sarebbe affidarsi ad un esperto.

Comunque sia, i genitori devono stare attenti ad alcuni COMPORTAMENTI ASSOLUTAMENTE DA EVITARE, come ad esempio:

  • Non banalizzare: usare frasi come “Dai non è niente!” oppure Non ci pensare, passerà!” hanno l’effetto di far sentire un figlio incompreso, non capito.

Chi soffre di ansia sta male veramente: la sofferenza non deve essere minimizzata.

  • Non incitare: altro errore comune è quello di esortare i figli a farsi coraggio, a darsi una mossa, spesso ricordando loro che “L’altra volta è andata bene, perché stavolta dovrebbe andare male?. Se ci riuscisse, lo farebbe già di suo!

Alcuni consigli pratici:

Come dicevano all’ inizio, i genitori devono assolutamente stare attenti a non farsi prendere dal panico, dalla fretta di far sparire l’ansia del figlio il prima possibile. Se l’ansia si è presentata, il passo successivo è individuare il messaggio che essa porta: quali sono i pensieri, gli stati d’animo le emozioni sottostanti? E contemporaneamente, invitare il bambino o il ragazzo a parlarne, a trovare le parole per esprimere quello che si porta dentro. Così facendo, non ci sarà più bisogno di far “parlare” il corpo con le varie manifestazioni ansiose. Molti genitori spesso mi obiettano che i loro figli si chiudono, che non ne vogliono parlare, ritenendo dunque inutile il mio invito. È vero, può succedere soprattutto se i figli sono adolescenti ma per quest’ ultimi sapere che i genitori ci sono e che sono disponibili ad aiutarli è comunque fondamentale, già di per sé terapeutico. Sicuramente vedere un figlio che soffre, senza poter far niente è frustrante e grande è la tentazione di intervenire; invece, sempre con gli adolescenti, il comportamento più utile è quello di esserci ma di farsi un po’ da parte, mandando così al ragazzo un messaggio di fiducia: anche da solo può provare a risolvere i suoi problemi.

Infine, è importante accettare un figlio per quello che è; a lui serve crescere senza che nessuno lo giudichi, gli faccia pressioni, dal momento che se sta male è proprio perché intorno a lui si sono create troppe aspettative.

 

Se non siete soddisfatti e volete maggiori informazioni scrivetemi a info@eleonoraceccarellipsicologa.it

Io sarò felice di accogliere e rispondere  alle vostre domande e alle vostre perplessità.

Figli e insuccessi sportivi: no alla sindrome del campione

Quando si verifica un momento critico per i figli, quale appunto una gara persa, mi capita spesso di essere contatta dai genitori in preda al panico: “Aiuto dottoressa nostro figlio ha perso una partita, lo scorso anno ha sempre vinto”.  Intanto è importante sottolineare che una gara persa ci può stare nella vita di uno sportivo, anzi … ce ne saranno sicuramente altre. I genitori vorrebbero sempre il meglio per i propri figli: ma siamo sicuri che questo “meglio” corrisponda sempre ad una vittoria? In questi casi, il rischio è quello di passare ai figli, anche inconsapevolmente,  un messaggio di questo tipo: si è importanti solo se si vince.

E’ fondamentale educare bambini e adolescenti ad affrontare anche la sconfitta, insegnando loro che ciò che conta è arrivare in fondo, divertirsi, migliorarsi e accettare che qualcun altro possa fare meglio di noi.

Concretamente, cosa possono fare i genitori per aiutare i figli a fronteggiare una sconfitta?

In primo luogo è importante valorizzare gli aspetti positivi di un fallimento. Ad esempio, se si tratta di un gioco di squadra sottolineare ai bambini quanto il loro contributo in campo è stato utile e perché, oppure valorizzarli rispetto all’impegno e al fair play, questo vale anche in uno sport individuale.

Affinché un insuccesso possa essere educativo, fondamentale è anche il contributo dell’allenatore e della società. Il tecnico deve assolutamente sostenere il lavoro fatto dalle famiglie e far partecipare i giovani atleti ad attività e a competizioni sportive rispondenti alle loro abilità e competenze.

In secondo luogo, soprattutto se si tratta di un figlio adolescente, è importante lasciare un tempo per metabolizzare la sconfitta e solo successivamente provare a chiedere informazioni in merito, sintonizzandosi con i suoi vissuti emotivi: “Comprendiamo la tua delusione …” oppure “Lo capiamo, ci sei rimasto/a male…”. Lasciando sempre aperta la possibilità di poterne parlare insieme se e quando vorrà. Rispetto a quest’ultimo punto, spesso gli adolescenti preferiscono restare reticenti con i genitori e aprirsi con l’allenatore. Comunque sia, per loro saper di poter contare sul genitore è lo stesso importante e … spesso terapeutico.

Bisogna imparare sin da piccoli a saper perdere e questo apprendimento dipende in larga misura dal comportamento dei genitori.

Per i figli è importante sentirsi amati per quello che sono, rispetto ai loro punti di forza ma anche rispetto ai loro limiti.

Bambini e adolescenti che si sentono amati in modo incondizionato non avranno il timore di mettersi in gioco e magari di sbagliare mossi dalla consapevolezza che i genitori sono pronti a sostenerli anche se non sono bravi in tutto.

Parola d’ordine RESILIENZA: anche le sconfitte possono rappresentare una vittoria

In psicologia, la resilienza è la capacità di far fronte in maniera positiva alle sfide che la vita pone.

Persone resilienti sono coloro che immerse in situazioni sfavorevoli riescono a fronteggiare efficacemente le difficoltà nonostante tutto e contro ogni previsione.

Anche in ambito sportivo si presentano situazioni difficili da gestire quali le sconfitte oppure gli infortuni.

Quali sono le caratteristiche che fanno di uno sportivo una persona resiliente? Non stiamo parlando di super poteri ma di aspetti di personalità, di capacità e di sostegni da conoscere e da saper valorizzare. La resilienza propone di non ridurre mai una persona alle sue carenze ma di incrementare le sue potenzialità.

Nello sport le sconfitte vanno messe in conto e dunque atleta e allenatore devono imparare a gestirle in maniera costruttiva: gli insuccessi rappresentano un’occasione per fare una valutazione delle proprie risorse, dei punti di forza e contemporaneamente delle criticità. Atleta e tecnico dovrebbero essere in grado di formulare (e condividere) obiettivi che siano adeguati: difficili ma raggiungibili. Problemi o intoppi nel raggiungimento degli obiettivi prefissati possono indurre l’atleta a dubitare delle proprie capacità e dunque a vivere la sconfitta come un fallimento personale. E se questo avviene ad un giovane atleta, per esempio ad un adolescente in cerca della propria identità, il rischio è che possa voler abbandonare lo sport. La vittoria è un importante obiettivo ma non è l’unico ma soprattutto la sconfitta nella competizione non è un fallimento personale o una minaccia al proprio valore come persona.

Anche i genitori hanno un loro importante ruolo: mamma e babbo vorrebbero vedere sempre i propri figli raggiungere il successo. In questi casi è opportuno ricordare che vittoria e successo non sono sinonimi: anche una sconfitta può coincidere con un miglioramento di prestazione o con il raggiungimento di un obiettivo stabilito.

Quando la prestazione viene percepita come una sconfitta personale sicuramente una potente influenza viene effettuata anche dalla motivazione. Se un atleta è fortemente motivato nel voler praticare la sua disciplina che comporta impegno, lavoro, sacrificio, rinunce, affronterà le sconfitte a testa alta, complimentandosi con se stesso per quello che di buono che è riuscito a fare e con l’avversario per la bravura dimostrata (prima o poi uno più forte lo si trova).

L’ allenamento psicologico, mental training, lavora specificatamente sugli aspetti descritti, ovvero sulla formulazione degli obiettivi e sulla motivazione, avvalendosi di un insieme di strategie di potenziamento delle abilità mentali, importanti al pari di quelle fisiche, tecniche e tattiche.

L’ apprendimento e l’applicazione di queste tecniche di gestione mentale è INDISPENSABILE negli atleti professionisti ma possono essere utilizzate con efficacia anche da atleti amatori che non si accontentano di prestazioni mediocri ma desiderano accedere al massimo delle loro potenzialità.

NATALE, VACANZE E SPORT: ESSERE GENITORI DI ATLETI SOTTO LE FESTE

Lo sport non si ferma mai. Anzi, molto spesso è proprio nei periodi di vacanza che gli allenamenti si fanno più intensi. Sicuramente una famiglia che ha un figlio o una figlia (o più figli) che fanno agonismo deve necessariamente contemplare questa dimensione prima di fissare una gita o altro. Se alla trasferta fuori regione con la squadra si sovrappone la vacanza con la famiglia, per molti giovani sportivi può essere davvero una tragedia: infatti, rinunciare all’ appuntamento che vede partecipare tutti i componenti del gruppo per loro è come ammettere di non voler far parte della squadra, di non tenere ai compagni. E sappiamo bene quanto è importante a quell’ età appartenere ad un gruppo di pari. Questo per dire che una famiglia non deve rinunciare ai propri progetti, semmai fare una scelta che faccia contenti tutti, grandi e piccoli di casa. Importante sarebbe parlare per tempo con l’allenatore se in programma c’è una vacanza da fare in modo da non creare spiacevoli sovrapposizioni oppure approfittare della trasferta sportiva del figlio per spostarsi tutti.

Per un giovane atleta che fa sport e lo fa con passione, la possibilità di fermarsi, di riposarsi spesso non viene nemmeno contemplata. E’ più facile che siano i genitori soprattutto quando si parla di bambini e bambine dagli otto anni in su oppure di ragazzi adolescenti a manifestare il desiderio di uno stop. E qui la domanda nasce spontanea : “Chi lo fa sport?” siamo sicuri che l’adulto in questione non si preoccupi più del dovuto, mosso dal fatto che il figlio non lamentandosi mai del carico di allenamento, sicuramente non dica il vero? Una considerazione legittima da parte di un genitore ma se rispetto all’ attività fisica il figlio non manifesta alcun disagio perché arrecarglielo? Sicuramente un po’ di riposo serve, le feste rispondono proprio a questo bisogno anche se negli altri giorni, essendo il campionato in corso e la stagione delle competizioni alle porte, fermarsi a lungo non sarebbe produttivo, né sul piano fisico né a livello mentale. E rispetto proprio alla componente psicologica, gli allenamenti nel periodo delle festività hanno tanti benefici. Molto spesso le società realizzano un orario ad hoc, in modo che i più piccoli possano dedicarsi allo sport ma anche ad altro, come allo studio o alla compagnia degli amici. Sicuramente per un bambino ma ancora di più per un adolescente che fa un bel po’ di sacrifici per conciliare scuola, sport e tempo libero questa è un’attenzione, una riorganizzazione estremamente importante. Non solo, per un bambino o un ragazzo il fatto di poter andare agli allenamenti libero dai soliti impegni e vissuti scolastici, che incidono non poco sulla preparazione sportiva, rappresenta davvero un valido alleato della motivazione e del clima di allenamento.

E tornando ancora al quesito di partenza ”Chi fa sport?” Siamo sicuri che il piccolo atleta in questione sia realmente stanco o forse è il genitore ad esserlo? Certamente gli impegni sportivi quotidiani di un figlio o di più figli si ripercuotono sull’ organizzazione familiare. I genitori non si impegnano solo su un piano economico per lo sport dei figli, molto spesso sacrificano il proprio tempo in favore dei più piccoli. È del tutto normale per un genitore sentirsi affannato, stanco considerando tutto; non è detto però che lo siano i più piccoli. Quindi, sotto le feste, per un genitore forse sarebbe più utile riappropriarsi di spazi e di momenti per se stesso,  anziché pretendere più tempo libero per i figli. Provare per credere!

EMOZIONI IN CAMPO: riconoscerle per imparare a gestirle.

La maggior parte delle volte che concludo una riunione con i tecnici di una certa società sportiva o esco da un colloquio di consulenza con i genitori di giovani atleti, resto colpita dal fatto che le loro preoccupazioni riguardano principalmente le emozioni vissute dai ragazzi.

Come dargli torto, visto che le emozioni fanno parte di tutti gli eventi della nostra vita, inclusi lo sport e l’esercizio fisico.

Nello specifico c’è chi vorrebbe aiutare le proprie atlete a non avere paura delle avversarie; chi vorrebbe guarire il proprio figlio dall’ansia pre-gara; chi desidererebbe incrementare la motivazione dei più giovani, soprattutto degli adolescenti e c’è chi gradirebbe una ricetta magica per gestire la delusione e la rabbia conseguenti ad una partita andata male.

Insomma, le richieste sono tante, diverse tra loro, ma forse unite da una difficoltà comune: ovvero la percezione che le emozioni spesso sfuggano al nostro controllo. E se parliamo di bambini e ragazzi, questo vissuto si fa ancora più forte visto che noi adulti abbiamo la responsabilità del loro benessere psicologico. Ecco allora perché, tra le tante richieste, troviamo quella di chi vorrebbe addirittura far scomparire certi sentimenti dall’esperienza emotiva dei più giovani-

Ma cosa sono le emozioni? E perché sembrano condizionare così tanto alcuni aspetti delle vite dei ragazzi, degli sportivi e in generale di tutti noi?

L’etimologia della parola emozione deriva dal latino emovère che si traduce “mettere in moto”, “portare fuori”. Infatti le emozioni altro non sono che una risposta ad un determinato stimolo, interno o esterno, che comporta l’attivazione di tutto l’organismo. Ad esempio, quando siamo presi da un’emozione come la paura, il battito del cuore accelera, la sudorazione aumenta, muscoli possono contrarsi di colpo (o al contrario rilassarsi), etc

Tutte queste reazioni psicofisiologiche, conseguenti a qualcosa che accade intorno a noi non possono essere assolutamente cancellate con un colpo di bacchetta magica.

La repressione delle emozioni può generare alla lunga uno stato di malessere mentale, e nei peggiori dei casi allo sviluppo di una vera e propria patologia; per questo motivo, l’inibizione delle emozioni non può certo essere l’obiettivo di chi lavora per il benessere e la crescita delle persone, soprattutto di chi si occupa di bambini e ragazzi.

Quindi, partendo dal presupposto che è assolutamente impossibile bloccare o eliminare le emozioni, come possiamo aiutare gli atleti a gestire i propri vissuti emotivi? In primo luogo è fondamentale aiutare gli sportivi a riconoscere le emozioni vissute, a dare loro un nome; ciò, vale anche per le emozioni negative. È inoltre importante invitare gli atleti a riflettere sul significato che le emozioni assumono nelle diverse situazioni specifiche: per esempio l’ansia spesso indica che il corpo si sta preparando nei confronti di una minaccia mentre la rabbia può rappresentare una reazione ad un vissuto di frustrazione o di delusione. Questo lavoro di “alfabetizzazione emotiva” aiuta i più piccoli a comprendere cosa siano le emozioni, a cosa servono e come si esprimono; in pratica, imparano a capire sé stessi e gli altri a livello emotivo.

L’alfabetizzazione emotiva è soprattutto una sfida e come tale una opportunità. Un ponte che facilita la conoscenza di sé e, in ultima analisi, le relazioni con gli altri. Una dimensione che vale senz’altro la pena di approfondire. Provare per credere!

Per informazione e approfondimenti: Dott.ssa Ceccarelli 3382227321

Essere genitori sportivi: missione possibile! Il ruolo della famiglia nello sport

Quando parliamo di bambini e sport, non possiamo fare a meno di pensare ai genitori e al loro prezioso contributo nella crescita sportiva dei figli. E’ all’ interno del sistema familiare che i più piccoli imparano a fronteggiare le diverse sfide che la vita propone loro: i genitori sono per i figli una guida, un riferimento imprescindibile per uno sviluppo sano. Sentirsi sostenuti e incoraggiati dalla propria famiglia promuove nei bambini un atteggiamento di fiducia che permette loro di buttarsi e sperimentarsi nelle varie situazioni quotidiane. Anche cimentarsi in una disciplina sportiva è un’esperienza che dipende dalla propria famiglia: è per mezzo di quest’ultima che i più piccoli arrivano a fare sport ma soprattutto che continuano a praticarlo negli anni. E visto che lo sport, dopo la scuola, è il luogo in cui i più giovani passano gran parte del loro tempo, come possono i genitori motivare e supportare i propri figli affinché l’esperienza sportiva possa essere positiva e formativa? Genitori sportivi non si nasce ma lo si può diventare. In primo luogo, è fondamentale che il genitore svolga un ruolo di sostegno senza però sovrapporsi o peggio ancora sostituirsi alla figura dell’allenatore poiché quest’ultimo, nel contesto sportivo, rappresenta un modello efficace. Se i genitori in primis non ne riconoscono il ruolo, come possiamo pensare che lo facciano i figli? I bambini imparano dal comportamento di mamma e babbo: se quest’ultimi sono capaci di affidarsi all’allenatore, riconoscendone il valore e rispettandone le scelte sportive, sicuramente anche i figli riusciranno a fare altrettanto: la fiducia genera fiducia. Non solo. Il fatto di “delegare” o meglio condividere con un altro adulto significativo, qual è l’allenatore, l’educazione dei propri piccoli, accresce in quest’ultimi la percezione di autoefficacia e sostiene lo sviluppo dell’autostima, poiché i bambini apprendono che possono farcela anche senza l’aiuto diretto dei genitori, seppur consapevoli di poter contare sul lor appoggio ogni volta che ce ne sia bisogno. E sempre partendo dal presupposto che i giovanissimi imparano per imitazione e quindi dal comportamento degli adulti, non bisogna assolutamente dimenticarsi di offrire loro il buon esempio: anche se durante l’allenamento o la partita i bambini sono in carico all’ allenatore, i genitori restano comunque le loro guide principali. Comportarsi in maniera violenta fuori dal campo, autorizza e legittima i più piccoli a fare altrettanto. Purtroppo sono sempre più numerosi gli articoli di cronaca in cui padri di famiglia – qualche volta anche madri- sbraitano con toni oltraggiosi verso l’arbitro o l’allenatore mettendo in discussione il loro operato, o peggio ancora offendono verbalmente i giocatori della squadra avversaria che potrebbero essere i loro figli. La domanda sorge spontanea: cosa muove tali comportamenti? E’ solo la delega di responsabilità a fare da detonatore? Probabilmente no. Troppo spesso capita di proiettare sui figli gli obiettivi che non sono stati raggiunti, nel tentativo di una rivalsa personale, caricando così i più piccoli di pressioni e aspettative che li tengono lontani dal divertimento e da una crescita sana. Infatti, questa situazione espone i bambini ad un forte stress che può condurli ad un abbandono precoce del mondo sportivo, prendendone le distanze anche per molti anni. Quando parliamo di piccoli atleti l’obiettivo primario deve essere quello di farli divertire in un ambiente sereno e sano. Per ottenere questo, ancora una volta, fondamentali sono gli adulti significativi che circondano il giovane sportivo. Se questi da una parte suggeriscono di divertirsi, ma poi si arrabbiano quando il risultato atteso non viene raggiunto, allora trasmettono valori contraddittori e negativi.
Naturalmente desiderare che un figlio arrivi ad ottenere ottimi risultati è normale, ma questo non è sempre sinonimo di vittoria: anche una sconfitta può essere un risultato positivo se comunque un figlio si è impegnato a dare il massimo e si è divertito. Sono gli adulti che devono guidare i più giovani verso una crescita sana. Eloquenti in questo caso sono le parole di Madre Teresa di Calcutta: “La parola convince, ma l’esempio trascina. Non ti preoccupare se i tuoi figli non ti ascoltano, ti osservano tutto il giorno”.

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