EMOZIONI IN CAMPO: riconoscerle per imparare a gestirle.

La maggior parte delle volte che concludo una riunione con i tecnici di una certa società sportiva o esco da un colloquio di consulenza con i genitori di giovani atleti, resto colpita dal fatto che le loro preoccupazioni riguardano principalmente le emozioni vissute dai ragazzi.

Come dargli torto, visto che le emozioni fanno parte di tutti gli eventi della nostra vita, inclusi lo sport e l’esercizio fisico.

Nello specifico c’è chi vorrebbe aiutare le proprie atlete a non avere paura delle avversarie; chi vorrebbe guarire il proprio figlio dall’ansia pre-gara; chi desidererebbe incrementare la motivazione dei più giovani, soprattutto degli adolescenti e c’è chi gradirebbe una ricetta magica per gestire la delusione e la rabbia conseguenti ad una partita andata male.

Insomma, le richieste sono tante, diverse tra loro, ma forse unite da una difficoltà comune: ovvero la percezione che le emozioni spesso sfuggano al nostro controllo. E se parliamo di bambini e ragazzi, questo vissuto si fa ancora più forte visto che noi adulti abbiamo la responsabilità del loro benessere psicologico. Ecco allora perché, tra le tante richieste, troviamo quella di chi vorrebbe addirittura far scomparire certi sentimenti dall’esperienza emotiva dei più giovani-

Ma cosa sono le emozioni? E perché sembrano condizionare così tanto alcuni aspetti delle vite dei ragazzi, degli sportivi e in generale di tutti noi?

L’etimologia della parola emozione deriva dal latino emovère che si traduce “mettere in moto”, “portare fuori”. Infatti le emozioni altro non sono che una risposta ad un determinato stimolo, interno o esterno, che comporta l’attivazione di tutto l’organismo. Ad esempio, quando siamo presi da un’emozione come la paura, il battito del cuore accelera, la sudorazione aumenta, muscoli possono contrarsi di colpo (o al contrario rilassarsi), etc

Tutte queste reazioni psicofisiologiche, conseguenti a qualcosa che accade intorno a noi non possono essere assolutamente cancellate con un colpo di bacchetta magica.

La repressione delle emozioni può generare alla lunga uno stato di malessere mentale, e nei peggiori dei casi allo sviluppo di una vera e propria patologia; per questo motivo, l’inibizione delle emozioni non può certo essere l’obiettivo di chi lavora per il benessere e la crescita delle persone, soprattutto di chi si occupa di bambini e ragazzi.

Quindi, partendo dal presupposto che è assolutamente impossibile bloccare o eliminare le emozioni, come possiamo aiutare gli atleti a gestire i propri vissuti emotivi? In primo luogo è fondamentale aiutare gli sportivi a riconoscere le emozioni vissute, a dare loro un nome; ciò, vale anche per le emozioni negative. È inoltre importante invitare gli atleti a riflettere sul significato che le emozioni assumono nelle diverse situazioni specifiche: per esempio l’ansia spesso indica che il corpo si sta preparando nei confronti di una minaccia mentre la rabbia può rappresentare una reazione ad un vissuto di frustrazione o di delusione. Questo lavoro di “alfabetizzazione emotiva” aiuta i più piccoli a comprendere cosa siano le emozioni, a cosa servono e come si esprimono; in pratica, imparano a capire sé stessi e gli altri a livello emotivo.

L’alfabetizzazione emotiva è soprattutto una sfida e come tale una opportunità. Un ponte che facilita la conoscenza di sé e, in ultima analisi, le relazioni con gli altri. Una dimensione che vale senz’altro la pena di approfondire. Provare per credere!

Per informazione e approfondimenti: Dott.ssa Ceccarelli 3382227321

La riabilitazione di un infortunio è anche psicologica

Chi pratica sport, sia a livello agonistico che a livello amatoriale, prima o poi può imbattersi in un infortunio. Quest’ultimo rappresenta un evento destabilizzante le cui conseguenze si manifestano non solo a livello fisico ma anche e soprattutto a livello dell’equilibrio emotivo e psicologico. Vediamo cosa succede nello specifico.

Solitamente l’infortunio si presenta nella vita degli atleti senza preavviso: lo sportivo non può fare altro che arrendersi al suo decorso. Razionalmente la situazione è questa anche se praticamente per un atleta questa ”resa” non è affatto facile, anzi!

Il fattore tempo per molti può diventare un’ ossessione. Infatti, la prima domanda che uno sportivo si pone al momento del trauma è la seguente: “Quando potrò riprendere?”. Interrogativo che molto spesso diventa anche quello della società e dei genitori, quando l’ infortunato è un giovane. L’atleta tenta così di gestire il danno subito focalizzandosi su immediate fantasie di ripresa; ma quando arriva la consapevolezza che il tempo di recupero è connesso al trauma subito e darne un’indicazione precisa non è possibile, l’incertezza diventa protagonista. Il non sapere quando sarà possibile tornare ad allenarsi e partecipare alle gare, mette in discussione gli investimenti e gli sforzi fatti fino a quel momento, vanificando gli obiettivi della stagione sportiva. L’atleta vive così un forte smarrimento e spesso anche una grande solitudine, poiché è costretto ad allontanarsi dall’ ambiente sportivo, vissuto come una seconda famiglia.

Non solo. Quando il recupero procede positivamente e il rientro in campo è oramai vicino, il ricordo  dell’evento traumatico può ripresentarsi con forza, portando l’atleta a vivere con preoccupazione e insicurezza l’allenamento. Questa condizione risulta essere molto pericolosa, perché può condurre a nuovi infortuni e in casi più gravi, quando l’ansia diventa ingestibile, può spingere l’ atleta ad abbandonare l’attività sportiva.

Si comprende bene quanto i fattori psicologici abbiano un impatto significativo non soltanto sul benessere generale dell’atleta, ma anche sul decorso dell’infortunio. Quest’ultimo, se gestito con superficialità può essere un fattore di rischio per il ritorno alle gare dell’atleta.

L’ intervento dello psicologo dello sport risulta fondamentale quando si presenta un infortunio: la riabilitazione è anche psicologica.

L’atleta infortunato per tornare ad allenarsi con fiducia deve riconquistare la sua identità di sportivo.

Lo psicologo dello sport offre il supporto necessario per mantenere alto il livello di motivazione nei confronti del processo riabilitativo, che spesso è già di per sé faticoso e stressante, promuovendo un atteggiamento mentale positivo e individuando con l’atleta strategie e risorse per affrontare l’infortunio e garantire un  rientro all’attività  sportiva il più sicuro e veloce possibile. Inoltre, esistono delle tecniche mentali specifiche che rappresentano un ulteriore aiuto per lo sportivo.

L’importanza del lavoro psicologico è racchiusa in questo aforisma “Guarire è toccare con amore ciò che abbiamo precedentemente toccato con paura”. S. Levine

Per approfondimenti e domane: info@eleonoraceccarellipsicologa.it

Uno per tutti, tutti per uno! Il lavoro dello psicologo all’ interno di una squadra

In diverse occasioni ho parlato del ruolo dello psicologo in campo; in questo articolo vi illustrerò il lavoro con una squadra.

Quando uno psicologo dello sport inizia un percorso con una squadra, il suo operato non può prescindere dal coinvolgimento del coach. Questo è il primo intervento in campo. E’ fondamentale stabilire con l’allenatore una relazione di fiducia e di scambio reciproco. Perché?

Perché l’allenatore ricopre il ruolo di leader all’ interno di una squadra, guidando i suoi atleti nel complesso dell’attività sportiva che li accomuna. E dunque, anche la riuscita di un lavoro di preparazione mentale per il gruppo dipende dalla sua figura, che diventa quella di facilitatore delle tecniche che lo psicologo insegna alla squadra.

Secondo step importante nel lavoro con una squadra è favorire e costruire il senso di appartenenza al gruppo, ovvero creare la mentalità del “noi”. Lewin (1972) ha definito il gruppo come “una totalità dinamica in cui i membri si trovano in un rapporto di interdipendenza e perseguono un fine comune”. Il gruppo non è la somma dei suoi membri e delle loro caratteristiche personali, è qualcosa di più: il suo elemento distintivo sono le dinamiche che si creano al suo interno. Se il discorso si focalizza sulla squadra sportiva, essa può esser definita come un piccolo gruppo orientato al compito e alla prestazionei cui membri sono interdipendenti, vogliono raggiungere un fine condiviso e sviluppano una identità collettiva. Sono contemporaneamente coinvolti nello sforzo fisico individuale teso al raggiungimento di questo fine, consapevoli che la realizzazione di questultimo dipende dalla collaborazione e dall’ integrazione delle peculiari capacità e caratteristiche di ogni individuo con il resto del gruppo. Il lavoro dello psicologo ha l’obiettivo da una parte di promuovere la nascita e lo sviluppo di sentimenti e atteggiamenti positivi verso l’ ingroup; dall’altra, incoraggiare e dare visibilità a questo senso di appartenenza che è l’essenza stessa del gruppo. Per capire meglio, vi faccio un esempio. Sicuramente tutti voi conoscerete la danza degli “All Blacks”, i giocatori della nazionale neozelandese di rugby , i quali all’ inizio di ogni partita eseguono un complesso rituale maori di fronte agli avversari. L’avere qualche cosa di comune favorisce infatti l’identificazione reciproca tra i membri e la demarcazione dagli altri gruppi.

Infine, ma non per importanza, se la squadra è composta da bambini e adolescenti, il lavoro dello psicologo e dell’allenatore deve coinvolgere anche i genitori.

“Uno per tutti, tutti per uno!” non è solo il motto dell’allenatore e della sua squadra ma deve diventare anche quello dei genitori. E’ grazie a quest’ultimi, al loro prezioso ruolo di supporto nella vita sportiva dei figli, che gli obiettivi fissati e i risultati da raggiungere possono essere conquistati. Per mantenere un buon rapporto con i genitori è fondamentale incontrarli prima di ogni stagione per condividere le modalità operative e comprendere quali sono le loro aspettative. Molto spesso è proprio a questo livello, a livello delle aspettative, che si insinuano criticità tra allenatore, famiglie e società e dunque il supporto dello psicologo può fare la differenza.

 

Se siete interessati ad un approfondimento o ad una consulenza gratuita, scrivetemi a questo indirizzo: info@eleonoraceccarellipsicologa.it

NATALE, VACANZE E SPORT: ESSERE GENITORI DI ATLETI SOTTO LE FESTE

 

 

 

Lo sport non si ferma mai. Anzi, molto spesso è proprio nei periodi di vacanza che gli allenamenti si fanno più intensi. Sicuramente una famiglia che ha un figlio o una figlia (o più figli) che fanno agonismo deve necessariamente contemplare questa dimensione prima di fissare una gita o altro. Se alla trasferta fuori regione con la squadra si sovrappone la vacanza con la famiglia, per molti giovani sportivi può essere davvero una tragedia: infatti, rinunciare all’ appuntamento che vede partecipare tutti i componenti del gruppo per loro è come ammettere di non voler far parte della squadra, di non tenere ai compagni. E sappiamo bene quanto è importante a quell’ età appartenere ad un gruppo di pari. Questo per dire che una famiglia non deve rinunciare ai propri progetti, semmai fare una scelta che faccia contenti tutti, grandi e piccoli di casa. Importante sarebbe parlare per tempo con l’allenatore se in programma c’è una vacanza da fare in modo da non creare spiacevoli sovrapposizioni oppure approfittare della trasferta sportiva del figlio per spostarsi tutti.

Per un giovane atleta che fa sport e lo fa con passione, la possibilità di fermarsi, di riposarsi spesso non viene nemmeno contemplata. E’ più facile che siano i genitori soprattutto quando si parla di bambini e bambine dagli otto anni in su oppure di ragazzi adolescenti a manifestare il desiderio di uno stop. E qui la domanda nasce spontanea : “Chi lo fa sport?” siamo sicuri che l’adulto in questione non si preoccupi più del dovuto, mosso dal fatto che il figlio non lamentandosi mai del carico di allenamento, sicuramente non dica il vero? Una considerazione legittima da parte di un genitore ma se rispetto all’ attività fisica il figlio non manifesta alcun disagio perché arrecarglielo? Sicuramente un po’ di riposo serve, le feste rispondono proprio a questo bisogno anche se negli altri giorni, essendo il campionato in corso e la stagione delle competizioni alle porte, fermarsi a lungo non sarebbe produttivo, né sul piano fisico né a livello mentale. E rispetto proprio alla componente psicologica, gli allenamenti nel periodo delle festività hanno tanti benefici. Molto spesso le società realizzano un orario ad hoc, in modo che i più piccoli possano dedicarsi allo sport ma anche ad altro, come allo studio o alla compagnia degli amici. Sicuramente per un bambino ma ancora di più per un adolescente che fa un bel po’ di sacrifici per conciliare scuola, sport e tempo libero questa è un’attenzione, una riorganizzazione estremamente importante. Non solo, per un bambino o un ragazzo il fatto di poter andare agli allenamenti libero dai soliti impegni e vissuti scolastici, che incidono non poco sulla preparazione sportiva, rappresenta davvero un valido alleato della motivazione e del clima di allenamento.

E tornando ancora al quesito di partenza ”Chi fa sport?” Siamo sicuri che il piccolo atleta in questione sia realmente stanco o forse è il genitore ad esserlo? Certamente gli impegni sportivi quotidiani di un figlio o di più figli si ripercuotono sull’ organizzazione familiare. I genitori non si impegnano solo su un piano economico per lo sport dei figli, molto spesso sacrificano il proprio tempo in favore dei più piccoli. È del tutto normale per un genitore sentirsi affannato, stanco considerando tutto; non è detto però che lo siano i più piccoli. Quindi, sotto le feste, per un genitore forse sarebbe più utile riappropriarsi di spazi e di momenti per se stesso,  anziché pretendere più tempo libero per i figli. Provare per credere!

Lodare i bambini è utile alla loro crescita ma va fatto con attenzione, anzi con moderazione!

Chi non ha bisogno di riconoscimenti, scagli la prima pietra!

Tutti ne abbiamo bisogno: noi adulti ma anche (e soprattutto!) i bambini. Si tratta di un bisogno fondamentale per la nostra salute fisica e mentale, esattamente come il bisogno di nutrirsi o di dormire.

L’adulto, genitore, allenatore o insegnante, che attribuisce riconoscimenti positivi potenzia nel bambino  la disponibilità ad ascoltare e ad apprendere. Non solo, comunica fiducia e sicurezza al piccolo rispetto alle sue capacità. Attenzione però: affinché le lodi siano funzionali  allo sviluppo psicologico  di un bambino, devono essere fondate,  riferite cioè ad un fatto reale e concreto. Facciamo un paio di esempi. Esempio uno: “Hai fatto bene a presentare al professore i tuoi dubbi sulla gita. Sei stato davvero sincero e l’insegnante lo ha apprezzato. Esempio due: “Complimenti per la gara che hai disputato, sei stato molto bravo. Era una competizione difficile e ti sei dimostrato determinato fino alla fine nel raggiungimento degli obiettivi che ti eri prefissato. Ti sei impegnato molto quest’anno, organizzandoti diligentemente con la scuola e con gli impegni del tempo libero. Te lo sei meritato”.

In questi casi, il riconoscimento dell’adulto riguarda un’ azione specifica agita dal minore: così facendo il genitore/allenatore sottolinea che quel comportamento è ritenuto positivo e dunque il bambino si sente legittimato e motivato a consolidarlo e a ripeterlo in occasioni successive. Nono solo. Il fatto che sia fatto riferimento all’ impegno impiegato per ottenere il risultato è importante: lavorare duramente per raggiungere un obiettivo è una preziosa spinta motivazionale che va  sicuramente sostenuta e incoraggiata. Spesso il fatto di sforzarsi e di impegnarsi viene vissuto come qualcosa di meno importante dell’essere intelligenti. Ma a scuola,  nello sport e in generale nella vita, ogni traguardo da raggiungere si prefigura come una sfida che richiede impegno; per questo motivo, meglio lodare i bambini per le qualità che possono controllare (come l’impegno appunto), affinché considerino le nuove sfide come opportunità per apprendere ma soprattutto per andare avanti nel percorso di crescita, con la consapevolezza che si possa sempre migliorare.

Espressioni di questo tipo invece: ”Sei eccezionale!”, “Quanto sei intelligente!”, Come sei brava”, “Sei davvero un campione” sono lodi non riconducibili ad un’ azione ben precisa; il rischio è quello  di produrre una generica “sviolinata”  che ha effetti negativi sullo sviluppo della personalità  del minore e  sulla relazione tra adulto e bambino.

Quando noi adulti diciamo qualcosa a un bambino indirettamente diciamo qualcosa su di lui. Ogni messaggio che gli viene inviato quindi gli comunica cosa pensiamo di lui e gradualmente il piccolo si costruisce un’immagine di come lo percepiamo come persona. Per questo motivo, qualsiasi comunicazione ha un impatto non solo sull’interlocutore ma anche sulla relazione che abbiamo con lui. Ogni volta che parliamo con i più piccoli, bambini ma anche adolescenti,  aggiungiamo un altro pezzo al puzzle che stiamo costruendo insieme.

I più piccoli hanno bisogno della nostra approvazione per diventare adulti. Non dobbiamo privarli dei nostri elogi per quello che hanno fatto se lo hanno fatto con passione e impegno. In questo caso la lode rappresenta un incoraggiamento: quando abbiamo lavorato duro e fatto un buon lavoro ci fa piacere che gli altri riconoscano e apprezzino il nostro impegno.

Valorizzare  il risultato o il talento , non accresce l’autostima, tutt’altro;  in queste situazioni è stato osservato che i bambini  hanno difficoltà a tollerare le frustrazioni legate agli insuccessi che nella vita possono  inevitabilmente presentarsi;  inoltre,  manifestano maggiore insicurezza  di fronte alle difficoltà e sono  tendenzialmente  più resistenti a mettersi in gioco per migliorare i propri punti deboli.

Insomma, le lodi servono ma ci vuole misura nel complimentarsi con i propri figli per i piccoli o grandi successi quotidiani.

Chi è lo psicologo che lavora in ambito sportivo e di che cosa si occupa

All’interno del mondo dello sport, la figura dello Psicologo sta prendendo sempre più campo e diversi  sono i motivi di questo crescente coinvolgimento. In primo luogo, grazie ad una corretta informazione sulla figura dello psicologo che sta abbattendo numerosi pregiudizi (“A me non serve lo Psicologo dello Sport! Non ho mica problemi!” o “Sto benissimo. Non ho certo l’ansia! quindi a che mi serve? ”o ancora “Mica sono un professionista!”).

La psicologia dello sport è una disciplina relativamente giovane che si è conquistata uno spazio di autonomia all’interno della psicologia. Rientra nella classe della Psicologia Applicata, studia il comportamento umano e i processi psichici nell’ambito dello sviluppo psico-fisico e dell’attività sportiva.

Lo psicologo non è un nemico dello sport, semmai un valido alleato che mette a disposizione la sua specifica formazione per aiutare gli atleti a incrementare la performance individuale o di gruppo. A conferma di ciò, la cronaca degli ultimi decenni riporta sempre più spesso la testimonianza di atleti olimpionici che si sono avvalsi del sostegno di uno psicologo dello sport per migliorare la propria performance. Ad oggi, sono tante le ricerche scientifiche che dimostrano come le abilità mentali possono essere allenate e potenziate, incidendo positivamente sulla prestazione. Infatti, a fianco dell’intensa  attività di ricerca si è fatto spazio il lavoro sul campo, che ha permesso la nascita di diverse tecniche e metodologie in grado di potenziare e migliorare il livello di performance degli atleti e delle squadre di varie discipline. Ma la psicologia dello sport rappresenta una valida risorsa non solo per chi pratica una disciplina ad alti livelli ma anche per tutti coloro che praticano sport, amatori e nonche lavorano nel mondo sportivo (allenatori, dirigenti, tecnici, arbitri, medici, personal trainers, nutrizionisti, etc..) o che vivono il mondo dello sport, per esempio i genitori, possono usufruirne e trarne grandi vantaggi. Quest’ultimi, quando si parla del settore giovanile, rappresentano il target chiave nel lavoro con i più giovani, dal momento che l’obiettivo del lavoro con i bambini e i ragazzi non è tanto la performance quanto piuttosto un sano sviluppo.

Ma il lavoro dello psicologo dello sport spazia anche in altri settori:

  • Area della Terza età: per gli anziani, promuovendo ad esempio lo sviluppo di politiche di promozione dello sport;
  • Area della Riabilitazione (psicotraumatologia): per chi si trova alle prese con la ripresa da un infortunio. In questo settore, lo psicologo interviene sul trauma, sulle paure, sull’ansia da prestazione e sulla perdita di autostima che spesso rendono difficile il ritorno all’attività, ben oltre i tempi fisiologici della riabilitazione fisica.;
  • Area della Disabilità: per le persone con disabilità motorie e cognitive;
  • Area del Fitness: educare a stili di vita attiva e incoraggiare l’adesione a programmi per il fitness, sviluppando o rafforzando delle importanti modalità di cura di sè
  • Area del Wellness: per coloro che praticano attività motoria  al fine di ottenere e mantenere uno stato di benessere psicofisico;
  • Area della ricerca: per promuovere l’ideazione e l’applicazione di metodologie e tecniche sempre più appropriate, aggiornate e trasversali alle aree su menzionate.

Pertanto, seppur nella diversità degli ambiti di applicazione e di obiettivi, lo psicologo e la psicologia dello sport si rivolgono a tutti coloro che praticano attività fisica e/o sportiva direttamente e a tutti quelli che ne sono coinvolti indirettamente (allenatori, istruttori, genitori).

Ragione per cui, risulta importante che lo psicologo abbia un’opportuna. Nello scenario attuale, l’ attenzione agli aspetti psicologici della prestazione se da un lato ha fatto crescere il coinvolgimento e il riconoscimento della categoria professionale, dall’altro ha innescato il proliferarsi di nuove figure, di professionisti della mente  senza alcuna formazione e laurea psicologica. Da qui la necessità di un riconoscimento istituzionale della figura dello psicologo dello sport.

 

 

Il ruolo della famiglia nello sport: genitori sportivi non si nasce…. si diventa!

 

Quando parliamo di bambini e sport, non possiamo fare a meno di pensare ai genitori e al loro prezioso contributo nella crescita sportiva dei figli. E’ all’ interno del sistema familiare che i più piccoli imparano a fronteggiare le diverse sfide che la vita propone loro: i genitori sono per i figli una guida, un riferimento imprescindibile per uno sviluppo sano. Sentirsi sostenuti e incoraggiati dalla propria famiglia promuove nei bambini un atteggiamento di fiducia che permette loro di buttarsi e sperimentarsi nelle varie situazioni quotidiane. Anche cimentarsi in una disciplina sportiva è un’esperienza che dipende dalla propria famiglia: è per mezzo di quest’ultima che i più piccoli arrivano a fare sport ma soprattutto che continuano a praticarlo negli anni. E visto che lo sport, dopo la scuola, è il luogo in cui i più giovani passano gran parte del loro tempo, come possono i genitori motivare e supportare i propri figli affinché l’esperienza sportiva possa essere positiva e formativa? Genitori sportivi non si nasce ma lo si può diventare. In primo luogo, è fondamentale che il genitore svolga un ruolo di sostegno senza però sovrapporsi o peggio ancora sostituirsi alla figura dell’allenatore poiché quest’ultimo, nel contesto sportivo, rappresenta un modello efficace. Se i genitori in primis non ne riconoscono il ruolo, come possiamo pensare che lo facciano i figli? I bambini imparano dal comportamento di mamma e babbo: se quest’ultimi sono capaci di affidarsi all’allenatore, riconoscendone il valore e rispettandone le scelte sportive, sicuramente anche i figli riusciranno a fare altrettanto: la fiducia genera fiducia. Non solo. Il fatto di “delegare” o meglio condividere con un altro adulto significativo, qual è l’allenatore, l’educazione dei propri piccoli, accresce in quest’ultimi la percezione di autoefficacia e sostiene lo sviluppo dell’autostima, poiché i bambini apprendono che possono farcela anche senza l’aiuto diretto dei genitori, seppur consapevoli di poter contare sul lor appoggio ogni volta che ce ne sia bisogno. E sempre partendo dal presupposto che i giovanissimi imparano per imitazione e quindi dal comportamento degli adulti, non bisogna assolutamente dimenticarsi di offrire loro il buon esempio: anche se durante l’allenamento o la partita i bambini sono in carico all’ allenatore, i genitori restano comunque le loro guide principali. Comportarsi in maniera violenta fuori dal campo, autorizza e legittima i più piccoli a fare altrettanto. Purtroppo sono sempre più numerosi gli articoli di cronaca in cui padri di famiglia – qualche volta anche madri- sbraitano con toni oltraggiosi verso l’arbitro o l’allenatore mettendo in discussione il loro operato, o peggio ancora offendono verbalmente i giocatori della squadra avversaria che potrebbero essere i loro figli. La domanda sorge spontanea: cosa muove tali comportamenti? E’ solo la delega di responsabilità a fare da detonatore? Probabilmente no. Troppo spesso capita di proiettare sui figli gli obiettivi che non sono stati raggiunti, nel tentativo di una rivalsa personale, caricando così i più piccoli di pressioni e aspettative che li tengono lontani dal divertimento e da una crescita sana. Infatti, questa situazione espone i bambini ad un forte stress che può condurli ad un abbandono precoce del mondo sportivo, prendendone le distanze anche per molti anni. Quando parliamo di piccoli atleti l’obiettivo primario deve essere quello di farli divertire in un ambiente sereno e sano. Per ottenere questo, ancora una volta, fondamentali sono gli adulti significativi che circondano il giovane sportivo. Se questi da una parte suggeriscono di divertirsi, ma poi si arrabbiano quando il risultato atteso non viene raggiunto, allora trasmettono valori contraddittori e negativi.
Naturalmente desiderare che un figlio arrivi ad ottenere ottimi risultati è normale, ma questo non è sempre sinonimo di vittoria: anche una sconfitta può essere un risultato positivo se comunque un figlio si è impegnato a dare il massimo e si è divertito. Sono gli adulti che devono guidare i più giovani verso una crescita sana. Eloquenti in questo caso sono le parole di Madre Teresa di Calcutta: “La parola convince, ma l’esempio trascina. Non ti preoccupare se i tuoi figli non ti ascoltano, ti osservano tutto il giorno”

CONCILIARE SCUOLA E SPORT SI PUÒ!Mini guida per GENITORI al fine di sopravvivere alla nuova stagione scolastica e sportiva dei figli

La scuola è iniziata da poco più di una settimana e le vacanze sono già un lontano ricordo. Come affrontare al meglio a livello familiare gli impegni scolastici e sportivi? Sappiamo bene che l’inizio, solitamente, non è un momento facile per i figli ma anche per i genitori ….  sopravvivere si può! Anzi, con la giusta organizzazione  la nuova stagione di impegni dei figli può diventare un appuntamento utile e arricchente anche per mamma e babbo.

  1. Parola d’ordine: ORGANIZZAZIONE

Tutti in famiglia devono essere a conoscenza del calendario scolastico e sportivo.

E’ importante averlo sotto osservazione sempre, in modo da avere chiaro quali siano le giornate maggiormente impegnative per i vostri figli che potrebbero richiedere di anticipare lo studio nel weekend. Ciò, vi permetterà di conciliare gare e impegni familiari senza stress.

E veniamo al punto numero.

2. Parola chiave: AUTONOMIA

I giovani studenti della scuola primaria devono essere sostenuti e accompagnati nell’organizzazione… accompagnare non vuol dire sostituirsi a loro. Troppo spesso ascolto racconti di mamme che studiano più dei loro figli. Sicuramente è importante partire da obiettivi semplici e concreti; non possiamo aspettarci che i figli seguano ed eseguano alla lettera le nostre indicazioni, spesso anche molto imperative. Dobbiamo aiutarli con piccoli accorgimenti, con facili cambiamenti nell’ abituale routine affinché possano comprendere quanto tutta questa organizzazione possa diventare un valore aggiunto e non un punizione divina.

Qualche esempio pratico? E qui arriviamo al punto numero 3 che va a braccetto con l’autonomia:

         3. Educare alla RESPONSABILITÀ

Prima ancora di pensare a cosa, a come e a quando studiare, è importante che aiutiate i vostri figli a padroneggiare le routine quotidiane. La sera prima, incoraggiateli a preparare ciò che servirà loro il giorno dopo: vestiti da indossare per la scuola, quaderni e libri da mettere nello zaino, merenda/spuntini per la ricreazione, abbigliamento e/o alle attrezzature che servono per fare sport. È attraverso questi semplici gesti giornalieri che i bambini e le bambine imparano a prendersi le proprie responsabilità. Un’ultima cosa ma non per importanza: ricordatevi che anche nell’apprendimento di queste nuove e sane abitudini vale la regola “ognuno ha i suoi tempi, rispettiamoli!”.

I figli più grandi, gli studenti-atleti delle scuole secondarie di primo grado, dovrebbe gestire queste routine e  i propri impegni scolastici in maniera autonoma. Uso il condizionale perché se non fosse mai stato fatto prima nessun lavoro improntato all ’indipendenza e alla responsabilità, è possibile che abbiamo ancora bisogno di un genitore come tutore nella realizzazione pratica di tutto. In questi casi, occorre riparte dal semplice, dalle piccole routine giornaliere.

      4.  CARPE DIEM!

Il viaggio da e verso la scuola e il campo sportivo non è puramente un servizio taxi: si tratta di un tempo prezioso per la famiglia, un momento dove si può raccontare e condividere eventi quotidiani. Per i vostri figli è anche il luogo dove possono essere svolte tutte quelle attività che non richiedono particolare concentrazione, quali ad esempio: rileggere gli appunti,  sistemare i quaderni, ascoltare  un audiolibro per memorizzare alcune cose studiate a scuola.

Per voi genitori tutto questo può essere un grande aiuto e rappresentare un valido termometro della preparazione scolastica dei figli e del clima emotivo con cui vivono gli eventi didattici e sportivi.

      5. GESTIRE IL TEMPO

Le prime settimane di scuola e sport sono molto faticose per tutti, poi i mesi iniziano a scorrere inesorabili nella loro regolare routine. Potete così imparare ad approfittare del tempo in cui i vostri figli praticano sport per sbrigare alcune commissioni, come ad esempio: per andare a fare la spesa oppure per fare una passeggiata o attività all’aria aperta (se l’ubicazione della palestra lo permette) o ancora per fissare un caffè con un’amico/a.

Campeggiare sugli spalti o negli spogliatoi non è d’aiuto per voi che in quel tempo potete fare altre cose né per le vostre creature che nel contesto sportivo hanno il loro maestro da seguire

       6. IL RELAX….

Trovate il tempo di rilassarvi: non è un’eresia.

È un bisogno che serve a TUTTI i membri della famiglia, nessuno escluso!

Sicuramente imparare a organizzarsi  può risultare macchinoso e molto faticoso le prime volte ma una volta preso il via, gli investimenti fatti da tutti saranno ricompensati.

Iniziate già da ora a pensare a qualcosa che vi piacerebbe fare non appena avrete del tempo libero. E piano piano fate in modo che questi pensieri diventino obiettivi da raggiungere a cui bisogna fare posto nell’ incastro giornaliero. Provateci!

Buon anno scolastico e stagione sportiva  a tutti voi!!!!

QUALE SPORT PER MIO FIGLIO? Alcune indicazioni quando i nostri figli non hanno le idee chiare sulla disciplina da praticare.

Non esiste uno sport migliore o peggiore in termini oggettivi. Tutti gli sport fanno guadagnare salute psicofisica ai più piccoli. E allora, quando i nostri figli non hanno minimamente le idee chiare sullo sport da praticare, noi genitori come possiamo aiutarli ? Innanzitutto dobbiamo partire da questo assunto: dobbiamo orientarli.

Udite udite: orientare, non imporre! Invece troppo spesso capita che siamo proprio noi genitori, in maniera più o meno diretta, a decidere il futuro sportivo dei figli, come abbiamo visto in precedenza rispetto ai nostri personali desideri di riscatto.

Il ruolo dei genitori è fondamentale: chi meglio di noi conosce gli interessi e le abilità dei nostri ragazzi? Infatti orientarli verso la scelta di uno sport vuol dire partire dalla conoscenza delle loro attitudini, valutandone le predisposizioni, le risorse e i punti deboli. Non solo. E’ importante anche conoscere le principali caratteristiche delle varie discipline.  

Spesso si pensa che uno sport di squadra sia la scelta di elezione per quei bambini più timidi, più introversi, che temono il confronto con gli altri. Sicuramente per questi ragazzi uno sport di gruppo risulta essere di aiuto, perché grazie allo stare insieme riescono a superare il timore del giudizio altrui, conquistando una maggiore fiducia in sé; tuttavia, lo sport di gruppo può giovare anche a chi,  al contrario, “soffre” di un’ eccessiva sicurezza, di un’irruenza che si traduce spesso in un atteggiamento aggressivo e “prepotente”. Il fare parte di una squadra promuove un confronto costruttivo continuo che,  attraverso il dialogo e la condivisione di percezioni, offre ai suoi membri una maturazione emotiva, cognitiva e comportamentale; ma soprattutto, l’effetto del gruppo permette di far conoscere la frustrazione e la delusione di un insuccesso senza trasformarli in una sconfitta personale.

Un discorso analogo vale per gli sport individuali. Spesso la loro scelta viene dettata dal grado di autonomia del bambino e dal suo livello di attività: più un giovane è indipendente e iperattivo più la scelta va verso uno sport individuale.  Certamente queste caratteristiche sono utili nelle discipline suddette, ma siamo sicuri che un bambino meno autonomo e meno scatenato non possa trarne beneficio? Per loro questi sport potrebbero rappresentare un utile palestra per crescere e migliorarsi, e allora perché non farli provare?

Conoscere le caratteristiche proprie di ogni disciplina sportiva è importante,  ma ancora più rilevante è offrire ai più piccoli la possibilità di sperimentarsi.

Sarà proprio l’esperienza diretta a  guidarli verso una scelta consapevole, frutto dell’incontro tra le motivazioni del ragazzo e le prospettive fisiologiche, cognitive e di socializzazione insite in ogni sport.  

 

Anche l’età è un fattore utile da tenere in considerazione. Se è vero che lo sport per i bambini è importante, è altrettanto vero che occorre cominciare all’età giusta, senza anticipare i tempi e senza forzare la volontà del piccolo. Ogni cosa a suo tempo, seguendo le indicazioni dei medici. Prima dei 3 – 5 anni è sconsigliato iniziare qualsiasi attività sportiva, eccetto il nuoto, che può essere praticato fin dai primi mesi di vita. Tra i 5 e i 10 anni, i bambini sono molto versatili, quindi bisogna lasciarli provare secondo il loro desiderioL’importante è che, una volta che il bambino ha scelto il suo sport, sia pronto ad impegnarsi per impararlo, passo dopo passo. Ma è tra gli 8 e i 13 anni che i bambini hanno le più grandi capacità per imparare. Non solo possono sviluppare l’elasticità e il senso dell’equilibrio, ma anche la resistenza.

 

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