L’ ansia da gara: conoscerla per gestirla

 

L’ ansia può diventare una valida alleata, sia nello sport che nella vita di tutti i giorni.

Certo, riuscire a rendere l’ansia nostra “amica”non è per niente facile, anzi! E’ difficile innanzitutto perchè siamo abituati a vederla come qualcosa di esclusivamente negativo, configurandosi come uno tsunami che si presenta con la sua forza distruttiva nelle situazioni per noi più significative. E molte volte si arriva dallo psicologo proprio quando la situazione sfugge oramai da ogni controllo possibile: l’ansia da prestazione è infatti, una tra le problematiche più diffuse tra gli sportivi.

Quando parliamo di ansia da gara comunemente ci riferiamo ad un’attivazione ( o arousal) eccessiva in risposta ad una competizione.

Per ottenere una performance ottimale serve un’attivazione ottimale, ovvero un buon bilanciamento dei livelli d’ansia. Ad esempio, chi affronta prove molto dure, estreme, come un pilota di moto gp, o un atleta di triathlon, non è che ha meno paura o ansia degli altri, ha solo imparato a riconoscere e a gestire i propri sentimenti per spingersi fino al limite senza superarlo. Questo è ciò che ogni sportivo dovrebbe imparare a fare per essere performante

Detto ciò, il primo passo fare per rendere l’ansia una nostra alleata,  è quello di riconoscerla: non dobbiamo scacciare l’ ansia- come se fosse un mostro- ma dobbiamo imparare a comprenderla e….  a gestirla!

Quali sono i segnali riconducibili all’ansia da gara?

 A livello corporeo,  le principali alterazioni fisiologiche osservate negli adulti sono:

  • respirazione superficiale e periferica molto veloce;
  • aumento della frequenza cardiaca;
  • possibili aritmie;
  • aumento della tensione muscolare;
  • aumento della sudorazione, anche in assenza di movimento fisico o temperature troppo elevate;
  • sensazione di pesantezza alla bocca dello stomaco;
  • vomito e diarrea;
  • irrequietezza;

In abbinamento a questi segnali corporei troviamo anche delle  di componenti di tipo cognitivo, come la presenza di immagini e pensieri negativi (es., “la partita andrà male”, “farò una figuraccia”) o ancora la sensazione di essere continuamente osservati, la cui percezione aumenta ancor più il disagio e l’apprensione, alimentando il senso di impotenza nell’ affrontare ciò che sta accadendo.

Nei bambini invece prevale la componente somatica: solitamente è difficile  esprimere a parole l’inquietudine vissuta.  Alla luce di ciò, risulta fondamentale , da parte degli adulti significativi, saper osservare le manifestazioni corporee dei più piccoli e i comportamenti agiti, in modo da intercettare tempestivamente eventuali indicatori di  disagio.

Infine, la sindrome ansiosa è personale: non tutti gli atleti presentano gli stessi sintomi; alcuni manifestano la loro ansia principalmente a livello corporeo, altri invece a livello comportamentale e soggettivo (variabilità interindividuale). In più, lo stesso atleta può manifestare il proprio stato ansioso in modo diverso, ad esempio in competizioni differenti (variabilità intraindividuale).

Queste informazioni sono utili ai fini dell’intervento: non esiste una strategia che funzioni sempre, per qualsiasi persona, e in qualsiasi situazione. Lo psicologo dello sport, infatti, aiuta l’atleta a individuare le strategie più funzionali, tenuto conto del suo peculiare funzionamento emotivo, cognitivo e relazionale e dello specifico contesto sportivo. Non solo, quando protagonisti sono i più giovani, bambini e adolescenti, può essere utile coinvolgere e lavorare con i genitori e con gli allenatori, con gli adulti significativi, che rappresentano degli “osservatori” privilegiati. 

L’ansia non è una malattia e dunque non va curata, soprattutto ricorrendo ai farmaci. Le malattie vanno curate, le emozioni e i sentimenti vanno compresi, gestiti e risolti. Soprattutto quando il livello di ansia aumenta, al punto di essere esagerato rispetto alla prestazione, e questa condizione si cronicizza estendendosi a tutte le competizioni disputate e spesso anche alle sedute di allenamento, risulta fondamentale rivolgersi ad un professionista, ad uno psicologo dello sport. Quando l’ansia da prestazione viene gestita, i risultati positivi non si osservano solo a livello della performance sportiva ma a livello più generale: infatti, si inizia “naturalmente” a vivere meglio.

 

AMMALARSI DI SPORT: QUANDO L’ATTIVITA’ FISICA DIVENTA UN’OSSESSIONE

Lo sport fa bene al corpo e alla mente, “mens sana in corpore sano” dicevano i latiniPuò succedere però  che il fare attività fisica si trasformi in un pensiero costante. In questo caso, si parla di dipendenza da sport: l’esercizio fisico prende il sopravvento e diventa prioritario su tutti gli altri settori della vita: il troppo stroppia! 

 

Quali sono i segnali che ci fanno capire che il limite è stato superato?

Se lo sport diventa “troppo”, la mente si polarizza solo e soltanto sull’ organizzazione della giornata all’insegna dell’esercizio fisico. Un tale forma mentis comporta l’incapacità di concentrarsi su altre attività, essendo il fitness l’unico pensiero ricorrente. Ne consegue, che lo sport, diventa un vero e proprio “chiodo fisso”:  Non si pensa ad altro, tutte le azioni e gesti quotidiani sono finalizzati all’ avere tempo per andare in palestra e praticare sport. L’esercizio fisico prende così il sopravvento su  altri settori importanti della vita, come la famiglia, il lavoro, le amicizie all’ interno dei quali possono insorgere delle difficoltà o problematiche che prima non erano presenti.  

E visto che questo fenomeno è a tutti gli effetti una dipendenza, non dovremmo meravigliarsi se tra i comportamenti tipici, e dunque di allarme, troviamo proprio quelli di chi ha una dipendenza da sostanze. Tra questi, ad esempio, riscontriamo l’aumento graduale della quantità di esercizio per ottenere benessere (fenomeno della tolleranza); il disagio fisico o psicologico in relazione alla riduzione o alla cessazione delle sedute di allenamento, che possono portare ad una vera e propria crisi di astinenza con i suoi sintomi peculiariin mancanza dell’esercizio l’individuo sperimenta effetti negativi quali ansia, irritabilità e problemi legati al sonnoRispetto però alla dipendenza da sostanze, quella da sport spesso non viene riconosciuta socialmente come tale.  Nel   caso   dello   sport   compulsivo   la   dipendenza   che   si   viene   a   creare   è    qualcosa   che   la   stessa   società   reputa   come   salutare   e   positiva.  Questo   rende   ancor   più   difficile   per   la   persona   accorgersi   che   qualcosa   non   va   più   come   prima.

Inoltre, va segnalata la frequente presenza di anoressia e bulimia nervosa associate alla “pratica fisica dipendente” e alimentate dalle stesse motivazioni di controllo del peso e dell’aspetto fisico, soprattutto nelle donne, anche se i casi che riguardano il sesso maschile sono in aumento

 

Come si interviene?

Alla luce di quanto appena descritto, evidenti sono i meccanismi psicologici che alimentano e sorreggono questo tipo di dipendenza. Ne consegue che l’interruzione della pratica sportiva non rappresenta, di per se stessa, la strada che porta alla guarigione, anzi! Laddove è presente anche un disturbo dell’alimentazione, non è raro infatti riscontrare che il tentativo superficiale di sospensione della dipendenza sportiva possa addirittura aggravare la problematica connessa al controllo del cibo.

Un obiettivo importante sarà proprio quello di ritornare ad un esercizio adeguato dal momento che, come sottolineato più volte un’attività fisica moderata è da considerarsi una sana abitudine. Per raggiungere questo obiettivo, che sembra così semplice e lineare, in realtà vanno ricercate e risolte, le cause psicologiche sottostanti la dipendenza; e molto spesso agire da soli, senza l’aiuto di uno psicologo è davvero difficile. Anche perché, come anticipato sopra, la consapevolezza di avere un problema di dipendenza raramente è presente e quando lo è non è detto che incoraggi il cambiamento. E allora? Oltre alle cause psicologiche è necessario rintracciare le cause relazionali che hanno generato il disturbo. Perché una persona arriva a polarizzare tutta la sua vita nell’esercizio fisico? Quali sono state le esperienze relazionali pregresse che lo hanno portato a investire tutto sull’ attività sportiva fino ad arrivare ad esserne dipendente? Molto spesso chi trova rifugio in una dipendenza patologica è stato vittima di un controllo eccessivo da parte delle figure genitoriali, che ha minato lo sviluppo dell’autostima e della fiducia in sé. L’interiorizzazione di vissuti di inadeguatezza accrescono nel bambino e nel futuro adulto la convinzione di non potercela fare da solo e dunque il bisogno di dipendenza. Il dedicarsi in maniera eccessiva ad uno sport risponde a questo bisogno. Non solo, riesce anche ad offrire un appannaggio di indipendenza e l’ illusione di avere il controllo della situazione. Conoscere le dinamiche relazionali che hanno indotto e sostenuto lo sviluppo di una dipendenza è il primo passo per poter cambiare un comportamento disfunzionale e intraprendere la via della guarigione. 

 

Ansia da prestazione: alleata o nemica?

Perché si parla di ansia da prestazione nel mondo dello sport?

Sicuramente molti atleti (e non solo) si saranno confrontati con questo tipo di vissuto nel corso della loro esperienza. Quando si parla di sport, si fa riferimento a una forma di attività fisica che ha diversi obiettivi, tra cui il conseguimento di risultati nel corso di competizioni a tutti i livelli.

La gara rappresenta per un atleta un “esame” che mette in discussione i suoi investimenti fisici e psicologici; alla luce di ciò, egli può avere una risposta d’ansia normale o patologica alla gara. E qui forse qualcuno potrebbe rimanere sorpreso e domandarsi: “Esiste una risposta di ansia normale?” La risposta è affermativa e vediamo perché. Come accennavo prima, l’ansia è un’emozione di cui tutti abbiamo fatto esperienza almeno una volta nella vita. Comunemente pensiamo all’ansia come un ad un fenomeno negativo: questo non è sempre vero, dal momento che l’ansia rappresenta uno “stato di attivazione  fisiologico e comportamentale” (arousal) utile ai fini della sopravvivenza della specie. E’ la nostra mente che fa tutto questo al fine di proteggerci da un’eventuale situazione di pericolo, di stress, qual è appunto la gara.

Quando l’atleta deve compiere una prestazione, il suo organismo deve  infatti attivare una serie di processi fisici e psicologici che gli permettono il raggiungimento del risultato ottimale. Per raggiungere ma soprattutto per mantenere l’ attivazione ottimale, l’atleta ha bisogno di un giusto livello di ansia, una risposta d’ ansia che definiremo “normale”. Ogni atleta ha la sua zona di funzionamento ottimale. 

Quando invece il livello di ansia aumenta, al punto di essere esagerato rispetto alla prestazione che dobbiamo svolgere, non riusciremo più ad ottenere dei buoni risultati. Questa risposta è di tipo “patologico”, non funzionale alla competizione che viene disputata. Questa condizione di ansia esagerata, può verificarsi in una singola gara e rimanere dunque un episodio isolato, oppure può succedere che venga esperita con regolarità; in quest’ultima situazione, l’atleta si trova a vivere in modo preoccupato e allarmato tutte le competizioni che dovrà disputare con conseguenti  effetti negativi sulla performance e più in generale sul benessere fisico, psicologico e sociale.

Come si manifesta l’ansia da prestazione “patologica”? Quali sono i segnali che il nostro corpo manda quando vive questo impasse? Ma soprattutto come si gestisce? Ne parleremo nel prossimo articolo.  Buona lettura!

ESTATE: TEMPO DI ACQUA E DI BAGNI AL MARE. COME AIUTARE I PIÙ PICCOLI AD AVERE UN RAPPORTO SERENO CON L’ACQUA

Per un  neonato l’ambiente acquatico è quanto di più familiare possa trovare: è nel liquido amniotico che ha trascorso nove mesi di vita intrauterina ed è qui che ha sviluppato i suoi sensi e si è esercitato nei primi movimenti. Non c’è da sorprendersi quindi se i bambini appena nati mostrino un’innata affinità con l’acqua.

Compito dei genitori è e sarà quello di aiutarli a mantenere questa confidenza con l’acqua, fin dalle prime esperienze in piscina, al mare ma anche a casa nelle normali pratiche quotidiane come il bagnetto o la doccia.

Se è vero che molti bambini sembrano essere dei “pesciolini” che passerebbero la vita a sguazzare, è tuttavia altrettanto vero che altri già a pochi mesi di età inizino a rifiutare il contatto con l’acqua. Che cosa fare?

Anche in questo caso, dovranno essere gli adulti, per primi, a cambiare qualcosa del loro  comportamento affinché il rapporto con l’acqua possa diventare per i propri figli qualcosa di piacevole.

Se i genitori hanno paura dell’acqua e con il loro comportamento trasferiscono panico ai figli tutte le volte che hanno a che fare con bagni al mare o in piscina, come possiamo pensare che i più piccoli  possano godersi il momento in totale serenità? Rifiutarsi di prendere contatto con l’acqua sembra essere la strada migliore per la sopravvivenza, di tutti!

E poi, se i genitori sono invece dei pesci che vivrebbero sempre in acqua ma i loro figli no, meglio evitare  drammatizzazioni del tipo “Da chi avrà preso ? Non è figlio mio! Non c’è da avere paura dell’acqua, il bagno al mare è bellissimo”. Non dimentichiamo che qualsiasi forzatura eccessiva non può che irrigidire il bambino e allontanarlo ancora di più dall’obiettivo.

Che cosa possono fare i genitori per aiutare i figli che hanno paura dell’acqua?  Oggi ne abbiamo parlato con Martina Zipoli, istruttrice FIN.

“Sicuramente il primo contatto con l’acqua ha luogo con il bagnetto domestico; di fondamentale importanza risulta quindi rendere questo momento piacevole, avvalendosi di giochi e inserendolo nella routine giornaliera.”

Altra cosa importante da fare è la seguente: procedere con gradualità. “Se il bambino si mostra molto spaventato nei confronti dell’acqua, è bene proporre un avvicinamento progressivo e rassicuranteAll’inizio invitiamolo a bagnarsi  le mani e i piedi; successivamente sproniamolo a fare giochi che ne incoraggino una certa familiarità come i travasi ad esempio. Al mare tutto questo si traduce nel riempire il secchiello o l’annaffiatoio con l’acquaIn questo modo il bambino comincia a prendere familiarità bagnandosi i piedi e magari in un secondo momento possiamo proporgli di fare anche una breve camminata sul bagnasciuga”.

Prima del bagnetto vero e proprio può esserci uno step intermedio ancora. Molte volte a provocare la sensazione di paura non è solo l’acqua in sé, ma anche il disorientamento creato da un eccessivo spazio intorno, soprattutto al mare, con le onde. “Per questo può essere utile incominciare facendo prendere confidenza al bambino con l’acqua usando una piccola piscina gonfiabile, che può fornirgli l’impressione di tenere le cose “sotto controllo”.

Prima di concludere un ultimo valido consiglio: Mettete da subito, da appena nati, i bambini in piscina. Un corso di acquaticità per piccolissimi non serve per ‘imparare a nuotare’, ma può invece essere utilissimo per acquisire confidenza con l’ambiente liquido in modo da non farsi spaventare in seguito da schizzi, immersioni o ‘bevute’ impreviste. Se questo non è stato fatto e i bambini sono più grandi può essere comunque d’aiuto un corso di nuoto per arrivare preparati alla vacanza al mare”.

Tanti tuffi per tutti!

 

info@eleonoraceccarellipsicologa.it/FB: Sport e famiglia- studio di psicologia e psicoterapia

 

Lo psicologo che lavora in ambito sportivo: destinatari e aree di intervento

All’interno del mondo dello sport, la figura dello Psicologo sta prendendo sempre più campo e diversi  sono i motivi di questo crescente coinvolgimento. In primo luogo, grazie ad una corretta informazione sulla figura dello psicologo che sta abbattendo numerosi pregiudizi (“A me non serve lo Psicologo dello Sport! Non ho mica problemi!” o “Sto benissimo. Non ho certo l’ansia! quindi a che mi serve? ”o ancora “Mica sono un professionista!”).

La psicologia dello sport è una disciplina relativamente giovane che si è conquistata uno spazio di autonomia all’interno della psicologia. Rientra nella classe della Psicologia Applicata, studia il comportamento umano e i processi psichici nell’ambito dello sviluppo psico-fisico e dell’attività sportiva.

Lo psicologo non è un nemico dello sport, semmai un valido alleato che mette a disposizione la sua specifica formazione per aiutare gli atleti a incrementare la performance individuale o di gruppo. A conferma di ciò, la cronaca degli ultimi decenni riporta sempre più spesso la testimonianza di atleti olimpionici che si sono avvalsi del sostegno di uno psicologo dello sport per migliorare la propria performance. Ad oggi, sono tante le ricerche scientifiche che dimostrano come le abilità mentali possono essere allenate e potenziate, incidendo positivamente sulla prestazione. Infatti, a fianco dell’intensa  attività di ricerca si è fatto spazio il lavoro sul campo, che ha permesso la nascita di diverse tecniche e metodologie in grado di potenziare e migliorare il livello di performance degli atleti e delle squadre di varie discipline. Ma la psicologia dello sport rappresenta una valida risorsa non solo per chi pratica una disciplina ad alti livelli ma anche per tutti coloro che praticano sport, amatori e nonche lavorano nel mondo sportivo (allenatori, dirigenti, tecnici, arbitri, medici, personal trainers, nutrizionisti, etc..) o che vivono il mondo dello sport, per esempio i genitori, possono usufruirne e trarne grandi vantaggi. Quest’ultimi, quando si parla del settore giovanile, rappresentano il target chiave nel lavoro con i più giovani, dal momento che l’obiettivo del lavoro con i bambini e i ragazzi non è tanto la performance quanto piuttosto un sano sviluppo.

Ma il lavoro dello psicologo dello sport spazia anche in altri settori:

  • Area della Terza età: per gli anziani, promuovendo ad esempio lo sviluppo di politiche di promozione dello sport;
  • Area della Riabilitazione (psicotraumatologia): per chi si trova alle prese con la ripresa da un infortunio. In questo settore, lo psicologo interviene sul trauma, sulle paure, sull’ansia da prestazione e sulla perdita di autostima che spesso rendono difficile il ritorno all’attività, ben oltre i tempi fisiologici della riabilitazione fisica.;
  • Area della Disabilità: per le persone con disabilità motorie e cognitive;
  • Area del Fitness: educare a stili di vita attiva e incoraggiare l’adesione a programmi per il fitness, sviluppando o rafforzando delle importanti modalità di cura di sè
  • Area del Wellness: per coloro che praticano attività motoria  al fine di ottenere e mantenere uno stato di benessere psicofisico;
  • Area della ricerca: per promuovere l’ideazione e l’applicazione di metodologie e tecniche sempre più appropriate, aggiornate e trasversali alle aree su menzionate.

Pertanto, seppur nella diversità degli ambiti di applicazione e di obiettivi, lo psicologo e la psicologia dello sport si rivolgono a tutti coloro che praticano attività fisica e/o sportiva direttamente e a tutti quelli che ne sono coinvolti indirettamente (allenatori, istruttori, genitori).

Ragione per cui, risulta importante che lo psicologo abbia un’opportuna. Nello scenario attuale, l’ attenzione agli aspetti psicologici della prestazione se da un lato ha fatto crescere il coinvolgimento e il riconoscimento della categoria professionale, dall’altro ha innescato il proliferarsi di nuove figure, di professionisti della mente  senza alcuna formazione e laurea psicologica. Da qui la necessità di un riconoscimento istituzionale della figura dello psicologo dello sport.

 

P… come Positivo! Il pensiero positivo nello sport e gli effetti sulla prestazione

Durante la prestazione i pensieri possono influenzare i comportamenti dell’atleta e dunque influenzare la sua probabilità di successo:  se lo sportivo produce pensieri neri, negativi, questi avranno un effetto catastrofico  sulla performance.

Ma la buona notizia c’è.

La mente può essere allenata a pensare, a credere ed agire positivamente, ad avere fiducia nelle proprie capacità .

Ci si può allenare con la mente a pensare positivamente in qualsiasi sport.

Come? Partiamo da un  esempio.

Un atleta che durante una gara sviluppa pensieri negativi del tipo “sono stanco non arriverò alla fine della gara” oppure  “Non ce la farò mai” rischia di alimentare la così detta “profezia che si autoavvera”. Cioè si metterà mentalmente e fisicamente nelle condizioni di perdere il ritmo e le strategie adeguate a ottenere il massimo da quella competizione. Viceversa un atleta abituato a motivarsi attraverso un dialogo interno positivo del tipo “l’avversario è forte ma ho le risorse per poterlo fronteggiare”, si metterà nelle condizioni psicologiche di gestire la gara nel migliore dei modi possibili.

Il pensiero positivo favorisce la consapevolezza delle proprie capacità e aiutata gli sportivi a superare i propri limiti.

L’atleta può essere allenato a sviluppare un pensiero e un dialogo interno positivi grazie  a specifiche strategie; il self-talk,  è una  delle tecniche più conosciute e usate in psicologia dello sport. Detto con parole semplici, il self talk è il modo in cui l’atleta parla a se stesso, il suo dialogo interno, ed finalizzato a incrementare il controllo del comportamento.

La tecnica consiste nello sviluppo di affermazioni, incoraggiamenti, brevi istruzioni, parole chiave e frasi stimolanti, da ripetere a se stessi, al fine di sostituire eventuali pensieri negativi con stimoli positivi e rinforzanti.

Infine, vista l’importanza del pensiero positivo nel dirigere  le azioni dello sportivo, fondamentale è individuare obiettivi che siano raggiungibili per l’atleta in modo da accrescerne l’ autostima.

L’autostima è frutto del confronto che lo sportivo fa tra gli obiettivi e le sue abilità: per poter raggiungere un obiettivo bisogna credere profondamente di avere le capacità per riuscirci.  In questo modo si crea un circolo virtuoso per cui l’atleta che ha fiducia nelle proprie abilità, tende a perseverare     nell’ impegno anche quando le cose non stanno andando secondo i progetti, a mostrare entusiasmo e ad assumersi la sua parte di responsabilità se il successo viene a mancare.

Praticamente tutto è migliorabile per l’atleta che crede in se stesso. Quest’ultimo vive i momenti di crisi come un’ opportunità: le difficoltà non sono viste come il risultato di un limite personale, ma come una possibilità per individuare le proprie potenzialità e le aree di miglioramento. Al contrario, l’atleta che resta impantanato in uno stato di negatività assoluto, rimane cieco nei confronti dei propri punti di forza, utilizzando così le proprie risorse in maniera inadeguata

 

Per approfondimenti :info@eleonoraceccarellipsicologa.it

La tecnica del goal setting e le sue potenzialità ai tempi del Covid-19

Come ho sottolineato più volte, la psicologa dello sport può essere una valida alleata in questo momento così delicato: gli strumenti che offre, uniti alla disponibilità di tempo, possono supportare “a distanza” la preparazione degli sportivi.

Oggi voglio presentarvi un’ altra tecnica  molto efficace: il goal setting o formulazione degli obiettivi. Io uso moltissimo questo strumento con i miei atleti, soprattutto all’ inizio della stagione sportiva ma può essere una strategia efficace da usare anche in quarantena. Vi spiego brevemente come funziona per poi fare i dovuti approfondimenti.

Intanto, partiamo da questa domanda: Che cos’è un obiettivo? Possiamo definire un obiettivo “uno scopo, una meta, un  risultato che ci si propone di ottenere (www.garzantilinguistica.it)”. Solitamente ciò avviene attraverso il ricorso a strategie e individuando un intervallo temporale entro cui vorremmo che l’obiettivo si realizzi.  Il fattore tempo è importantissimo, ragione per cui occorre individuare e definire obiettivi a breve, medio e lungo termine.

In questo momento formulare obiettivi a medio e lungo termine è difficile perché di fatto in questa situazione di emergenza non sappiamo come ma soprattutto quando potremo ripartire. Ragione per cui, focalizzarsi su una pianificazione a breve termine è la strada migliore da perseguire, mantenendo comunque una attenzione al futuro e a ciò che è importante rimandare e magari rivedere. Infatti, agli atleti che hanno già lavorato sulla pianificazione su tutti e tre i livelli (breve, medio e lungo termine) suggerisco due cose: la prima è quella di mettere da parte il planning stagionale delle competizioni, che magari potrà tornare, anzi sicuramente sarà utile quando tutto ripartirà. E ovviamente quando sarà il momento questo documento dovrà essere rivisto, ridefinendo gli obiettivi prefissati.  

Ricordiamoci che una caratteristica fondamentale del goal setting è  la flessibilità: come di fatto è accaduto in queste settimane, con l’avvento della pandemia, raggiungere gli obiettivi stagionali prestabiliti diventa impossibile. E qui arriva il secondo suggerimento. Per non vanificare gli impegni di un’ intera stagione sportiva e non alimentare la percezione di impotenza e fallimento personale, è importante partire da questa domanda: “Quali sono gli obiettivi che posso raggiungere tenendo conto di questa situazione di blocco forzato?”

Gli obiettivi per gli atleti sono una vera e propria mappa: se le coordinate sono sbagliate e portano verso una meta irraggiungibile, non si arriva a destinazione. Ecco, una situazione di questo tipo non deve assolutamente verificarsi, per non alimentare negli sportivi, indipendentemente dal tipo di disciplina praticata, paure e preoccupazioni inutili, soprattutto ora che viviamo in questa condizione di disorientamento.

La domanda posta sopra “Quali sono gli obiettivi che posso raggiungere tenendo conto di questa situazione di blocco forzato?” è un valido interrogativo anche per chi si trova a cimentarsi per la prima volta con la pianificazione degli obiettivi. E’ importante partire da qui e darsi degli obiettivi giornalieri da rivedere alla fine di ogni settimana. Si tratta di un’importante strategia motivazionale che a sua volta genera soddisfazione e benessere.

Oltre al fattore tempo, affinché la tecnica del goal setting sia efficace è fondamentale che gli obiettivi:

  • vengano formulati in maniera chiara e precisa e che siano raggiungibili per l’atleta. Al contrario, obiettivi ambiziosi o mete troppo vaghe possono esporre l’atleta (e il suo staff) a insuccessi e frustrazioni.
  • Siano misurabili: ciò permette di analizzare nei dettagli il risultato ottenuto e di assegnargli un punteggio (ad esempio su una scala da zero a dieci) al fine di comprendere cosa ha funzionato e cosa, invece, sarà necessario andare a migliorare.
  • Siano espressi in positivo: le ricerche hanno evidenziato che, in alcuni casi, sia inefficace concentrarsi su obiettivi caratterizzati da frasi che contengono il “non” (es. non devo fare errori, non devo compiere movimento, non devo essere così rigido). Solitamente così facendo otteniamo l’esatto contrario di quello che vogliamo.

Ricordo infine che la tecnica del goal setting è molto più efficace se vede la partecipazione dell’allenatore.  La condivisione degli obiettivi tra atleta e istruttore è di fondamentale importanza, in questa condizione di allenamento a distanza lo è ancora di più, visto che si tratta di un strumento concreto, un valido supporto relazionale in questo momento di isolamento forzato.  

Buon lavoro e se necessitate di un approfondimento più individualizzato contattatemi info@eleonoraceccarellipsicologa.it

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Riferimenti Bibliografici:

Il ruolo dell’ allenatore ai tempi del Covid-19. Parola di istruttore! Intervista a Antonella Cerbai Istruttrice FISR

Il ruolo dell’allenatore è di fondamentale importanza e questo è profondamente vero anche ai tempi del covid-19.

Per un’atleta, il coach,  rappresenta un punto di riferimento, una guida da seguire anche durante questa quarantena. Restare in contatto con i propri atleti deve diventare l’obiettivo centrale di tutti gli allenatori. Soprattutto con gli adolescenti, il coach può essere l’interlocutore di riferimento con cui aprirsi e parlare delle proprie emozioni.

 

Per approfondire meglio questa connessione tra allenatori e atleti, ne ho parlato con Antonella Cerbai, istruttrice FISR- ASD Pattinaggio Calenzano (FI).

  • Cosa vuol dire essere allenatori a distanza?

“Cerco di tenere il più possibile i contatti con i miei atleti del gruppo agonismo e di tenerli attivi come posso; non sono molto social, ma con WhatsApp riesco a esserci e a fare molto con loro”.

  • Sono curiosa, in che modo li tieni attivi?

“Mando loro delle sfide, che non sono altro che obiettivi settimanali da raggiungere. Una finalità da perseguire è utile sempre, in questo momento poi ha anche una funzione rassicurante e motivante.  La prima sfida che ho mandato loro è stata quella, trattandosi di pattinaggio artistico, di interpretare il proprio disco di gara, con tanto di trucco e parrucco!.  In cantiere adesso hanno quella di scegliere un brano da interpretare tra 6 che ho inviato loro”.

  • Qual è l’atteggiamento degli atleti? Come percepiscono tutto questo?

“L’atteggiamento dei miei atleti per il momento è commovente reagiscono ad ogni stimolo con entusiasmo e partecipazione.

Sono consapevoli dello sforzo che devono fare per il bene di tutti e seguono le regole come sono abituati a fare….certo gli manca moltissimo poter calzare i pattini come a me del resto ma ci facciamo forza a vicenda!”

  • Ci sono differenze tra età?

“Io ho atleti agonisti compresi in una fascia di età tra i 7 e i 30 anni e devo dire che non c’è differenza nell’impegno che mettono nel rispondere ai miei stimoli….tutti spostano mobili per crearsi lo spazio, impegnando i padri nelle riprese dei video, si truccano e si preparano come fossero in gara, grandi e piccoli ugualmente”.

  • I genitori come percepiscono questa sospensione delle attività, cercano di mantenere un contatto?

“Sì,  i genitori sono presenti interagiscono e vivono questa sospensione esattamente come i loro figli. Io penso che quando ci rivedremo dentro la nostra amata pista di pattinaggio, sapremo trarre da questo brutto momento delle cose positive, ma prima di tutto ci uniremo in un abbraccio perché il contatto fisico e visivo è la cosa che sta mancando di più a tutti”.

 

Un grazie speciale a Antonella per questa sua testimonianza.

Restate connessi con i vostri atleti: l’allenatore è una risorsa preziosissima anche a distanza.

 

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Allenarsi ai tempi dell’emergenza. Con la mente si può!

Cari sportivi, questo momento di emergenza per il Covid-19, assomiglia un po’ ad un infortunio; quest’ultimo, rappresenta un evento destabilizzante le cui conseguenze si manifestano non solo a livello fisico ma anche e soprattutto a livello dell’equilibrio emotivo e psicologico.

Solitamente l’infortunio si presenta nella vita degli atleti senza preavviso: questo è quello che ha fatto il coronavirus, portando lo sportivo (e le  società) ad arrendersi al suo decorso. Razionalmente la situazione è questa anche se praticamente per un atleta questa ”resa” non è affatto facile, anzi!

La psicologa dello sport può essere una valida alleata in questo momento così delicato: gli strumenti che offre, uniti alla disponibilità di tempo, possono supportare “a distanza” la preparazione degli sportivi. Vediamo come.

Una tra le tecniche più adottate e interessanti in psicologia dello sport per incrementare la performance degli atleti, anche durante periodi di infortunio o di stop forzato, è l’imagery, o visualizzazione.

Durante la visualizzazione, l’atleta immagina una situazione o un movimento simulando a livello mentale un avvenimento reale. È come se facesse scorrere nella testa un film che può influenzare o gestire lui stesso.

Di fatto, durante questo tipo di allenamento mentale, gli studi confermano che a livello di attivazione cerebrale la visualizzazione aiuta a rafforzare le vie neurali che innervano i muscoli, ottenendo un risultato paragonabile a quello che otteniamo con l’esecuzione reale.

Ogni persona lo può fare con efficacia e successo. Partendo da una base di rilassamento, si guidano gli atleti nella rappresentazione mentale di immagini visive dapprima semplici ed in seguito complesse.

In ogni disciplina sportiva è utile saper sviluppare la capacità di visualizzare i movimenti. E’ importante visualizzare sia il movimento idealmente perfetto che il movimento compiuto dall’atleta.  Il matching tra le due esecuzioni permette di superare il gap tra ideale e reale.

L’esecuzione ottimale diventa più facile e naturale perché la mente (a livello psicologico) e il cervello (a livello anatomico) si sono abituati a produrre tale esecuzione.

Provare, per credere e se avete bisogno di approfondimento, contattatemi.

Buon lavoro!

Bambini: pronti, attenti e via! Muoversi in casa, si può!

La situazione di emergenza che stiamo vivendo ci impone di passare tanto tempo chiusi in casa. Come possiamo garantire ai nostri piccoli la possibilità di fare movimento?  Semplice, realizzando una gimkana domestica.

Consideriamo quindi questo confinamento in casa per evitare la diffusione del COVID-19 un periodo di cui fare tesoro, un’ occasione per stare in famiglia e da cui trarre grandi insegnamenti. Approfittiamone come un’opportunità meravigliosa per educare, per continuare a formare ma anche per continuare a divertirsi insieme.

Che cos’è una gimkana? Si tratta di una gara all’aperto dove i partecipanti devono percorrere un tracciato dove sono presenti degli ostacoli. Tutto questo solitamente va fatto nel più breve tempo possibile e con il minor numero di penalità.

Ecco, quello che dobbiamo fare è creare tutto questo all’ interno della nostra abitazione.

Non dobbiamo farci condizionare dall’idea che l’attività motoria  possa essere fatta solo all’aperto o dove è disponibile una palestra attrezzata.

Ricordiamoci che i bambini giocano e si muovono ovunque venga loro consentito. Allora, impegniamoci  a creare percorsi con difficoltà lievi utilizzando tutto ciò che abbiamo a disposizione: sedie, tavolini, asciugamani, scotch…via libera alla creatività!

Parola d’ordine DIVERTIMENTO. Condizione indispensabile per l’organizzazione delle attività motorie è che il bambino (o i bambini) provi piacere per ciò che sta facendo.

Quali sono i benefici?

Sul piano psicologico, i benefici sulla crescita e lo sviluppo sono molteplici: l’attività motoria promuove la consapevolezza corporea, migliora la concentrazione, attiva la capacità di prestazione e accresce l’autostima e il senso di autoefficacia.

Inoltre, il movimento aiuta i bambini a rafforzare l‘equilibrio e la coordinazione e ad acquisire padronanza non solo nei confronti del proprio corpo ma anche dei propri gesti in relazione allo spazio e, non ultimo, ai meccanismi del gioco.

Il materiale più importante è la fantasia. Non è necessario pensare ad oggetti o attrezzi particolarmente complessi.  Ad esempio,  possiamo mettere a terra delle bottiglie dell’acqua dicendo al bambino di fare uno slalom tra di esse, magari gattonando oppure strisciando, senza toccarle; oppure ancora possiamo legare una sciarpa a due sedie (o appoggiare il bastone di una scopa) invitando il bambino a passarci sotto( con i più grandi, possiamo esortarli a fare il limbo).

Ai nostri figli sicuramente piacerà tutto questo, per loro sarà una sfida divertente che aumenterà la loro abilità di movimento.

Alcuni suggerimenti e raccomandazioni per la Gimkana domestica:

  • Quale età è consigliata per questo tipo di attività motoria? Praticamente tutte. Detto questo, anche voi genitori potrete cimentarvi nella gimkana. Magari organizzandovi per fare una gara a squadre, ad esempio nel caso in cui i figli sono due: genitori contro figli oppure un genitore con un figlio contro il coniuge e l’altro pargolo.
  • E’ possibile fare una gara a tempo oppure fare una competizione dove vince chi sbaglia meno. In ogni caso è importante che alla fine ci sia un riconoscimento, un premio per tutti. I genitori magari potrebbero preparare dei diplomini o delle medaglie usando materiale di riciclo presenti in casa. Questa attività potrebbe anche coinvolgere i figli più grandi, proprio quelli adolescenti che sicuramente non vorranno fare il percorso.
  • Con i bambini più piccoli, tipo 2/3/4 anni meglio non fare la gara a tempo: sappiamo quanto per loro sia importante arrivare all’obiettivo, ovvero alla fine del percorso, ciascuno con il proprio andamento.
  • Sempre con i bambini di questa fascia di età sarebbe importante creare una gimkana fatta di pochi esercizi: tempi troppo lunghi possono demotivare e indurre perdita d’interesse e attenzione. Inoltre, sarebbe davvero prezioso che un genitore si occupasse di fornire assistenza a bordo del tracciato: i bambini così piccoli potrebbero (fisiologicamente) dimenticarsi il percorso; pertanto, avere qualcuno che stazione dopo stazione ricordi loro cosa fare è davvero utile, non solo per ultimare il circuito ma anche per non vivere inutili frustrazioni.
  • Ricordiamoci che le emozioni sono fondamentali nell’apprendimento ed è indispensabile che il bambino abbia esperienze di vissuto positivo:

ATTENZIONE AL LINGUAGGIO utilizzato con il bambino. Non dire: “non sei capace!” ma “se provi, un po’ alla volta impari”;

VALORIZZARE i piccoli successi del bambino;

DARE FEEDBACK positivi quando il bambino agisce, incoraggiandolo e sostenendolo.

  • Infine, per avere il parere e il significato da loro attribuito all’esperienza vissuta, potrebbe essere utile chiedere loro di fare dei disegni al termine delle esperienze fatte. O con i più grandi, invitarli a raccontare come hanno vissuto l’esperienza fatta.

Buon divertimento e buon lavoro a tutti!!!

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