Scegliere uno sport, missione possibile! Quali sono i fattori che influenzano la motivazione dei più piccol*?

Come si arriva alla scelta di un determinato sport? 

Come genitori occorre assolutamente arrivare preparati a questo momento, conoscendo i fattori che possono influenzare la scelta. E quindi prima o poi accadrà che nostro figlio  si presenti  con la fatidica richiesta: “Voglio fare basket”. 

Intanto partiamo da questa prima riflessione: da dove nasce l’interesse per una certa disciplina sportiva?

Diversi sono i fattori che muovono i figli verso la scelta di un certo sport.

In primo luogo, è possibile che la richiesta parta dall’esperienza personale: ad esempio, dalle vacanze estive, dove al centro estivo o semplicemente al parco, può aver sperimentato la disciplina richiesta. Oppure può darsi anche che ci sia un’attrazione verso uno sport perché lo fa l’amico/a del cuore, oppure perchè è la famiglia a parlarne e ad averne avuto esperienza diretta, oppure ancora perchè in televisione è stata visto e seguito.

Ognuno di questi fattori ha una sua influenza peculiare non solo rispetto alla scelta e quindi all’avviamento di un determinato sport, ma anche rispetto al suo mantenimento. Tutto ciò è riassumibile nel concetto di motivazione allo sport.

Quando si parla di motivazione, si fa riferimento alla spinta dell’individuo ad agire ed a mettere in atto comportamenti orientati a uno scopo. Affinché si inizi nella propria vita a praticare una qualsiasi attività, infatti, è necessaria una spinta, una causa, appunto una motivazione.

Un atleta motivato è un atleta che ha già un obiettivo chiaro, una maggiore sicurezza di sé ed è maggiormente invogliato a dedicare il tempo gli sforzi necessari per raggiungere l’obiettivo.

Nel caso in cui la scelta sia dettata da un’esperienza diretta sul campo, l’avviamento sarà agevolato e sostenuto da un’ alta motivazione. Quest’ultima, sarà fondamentale anche nel mantenimento di quella specifica disciplina nel tempo, sostenendo l’atleta nel superamento di ostacoli e criticità che potrebbero presentarsi nel percorso sportivo.

Quando invece la decisione è dettata dall’amico/a del cuore, o dai genitori che caldeggiano uno sport, l’accesso sarà facilitato e sostenuto dalla condivisione e dalla conoscenza, ma non è detto che la l’interesse per quella disciplina si mantenga stabile nel tempo: il rischio di abbandono potrebbe essere dietro l’angolo; in quest’ultimo caso gli effetti negativi potrebbero non essere solo a livello della pratica sportiva, e dunque traducibili come dicevo in un precoce drop-out, ma anche a livello più generale sullo sviluppo psicologico, come ad esempio sull’autostima e sul senso di autoefficacia.

Sicuramente la situazione in cui sono i figl* a scegliere autonomamente lo sport da praticare,  sulla base della propria esperienza, è la condizione migliore  ma senza un adeguato supporto da parte degli adulti, dei genitori e dell’allenatore, non è detto che possa durare nel tempo.

È proprio il sostegno da parte degli adulti significativi che può fare la differenza anche nei casi in cui la motivazione è bassa, o comunque labile.

In che modo allora, in qualità di genitori, possiamo aiutare i figli a maturare la passione e l’interesse per quello sport?

Per prima cosa dobbiamo essere consapevoli dell’importannte ruolo che abbiamo, e dunque imparare a esserci e a posizionarci alla giusta distanza: questo vuol dire aiutarli a destreggiarsi e a responsabilizzarsi verso gli impegni presi senza però sostituirsi a loro in modo da favorire l’autonomia. Inoltre è assolutamente fondamentale accompagnarli, anche emotivamente, nel loro percorso sportivo e di crescita. Rispetto a quest’ultimo punto è fondamentale, in qualità di adulti di riferimento,  la consapevolezza dei nostri schemi emotivi, che si traduce nel saper gestire le nostre emozioni e i nostri atteggiamenti.

Buon lavoro! 

 

Riferimenti bibliografici:

-Prepararsi al via, di D. Tortorelli

-La Psicologia dello Sport dei bambini. L’intervento dello psicologo nei settori giovanili sportivi di V. Prunelli et al.

I giovani atleti non sono macchine performanti

Abusi sulle ginnaste, Psicologi Toscana: “I giovani atleti non sono macchine: per guadagnare medaglie, bisogna lavorare sulle federazioni sportive” 20 novembre 2022

“Per guadagnare medaglie, bisogna lavorare sulle federazioni sportive” . La consigliera dell’ Ordine Eleonora Ceccarelli: “E’ fondamentale la figura dello psicologo a supporto di atleti, allenatore, squadra e famiglie;  i giovani atleti non sono macchine per portare a casa medaglie e risultati . Le pressioni che subiscono sono eccessive, troppo spesso non si vede più la persona ma soltanto la sua performance.
Bisogna lavorare con le Federazioni, e nelle Federazioni, affinché ci sia un’adeguata formazione di tutte le figure che ruotano attorno alle vite di ragazzi e ragazze”. A dirlo è Eleonora Ceccarelli , consigliera dell’ Ordine Psicologi della Toscana e referente del Gruppo di Lavoro di Psicologia dello Sport, dopo i casi di abusi denunciati da alcune ginnaste. Come il caso della pisana Ginevra Parrini, ex componente della nazionale di ginnastica ritmica che, ai microfoni di Rai2, ha confessato che perdeva anche 10 chili a settimana perché la sua dieta era un’ insalata a pranzo e una mela a cena. Subiva vessazioni continue per fare sempre meglio e vincere titoli e medaglie. “Lo sport è una palestra di crescita non solo dal punto di vista tecnico, questo dovrebbe essere il mantra, l’ obiettivo principale di ogni adulto che si trova coinvolto nella vita sportiva di bambini e bambine, ragazzi e ragazze – spiega Eleonora Ceccarelli -. Purtroppo, mano a mano che il livello di agonismo cresce, i giovani diventano atleti e vengono visti e cresciuti come macchine performanti, sottoposti a indicibili fatiche fisiche ed emotive. Si crea così un’ anti-cultura che valorizza una competitività estrema per la precocità e per i ritmi, una competitività che passa per l’ appropriazione del corpo di bambini e bambine”. ” Mancano spazi di ascolto e sostegno degli sportivi e delle sportive , che non vivono solo di glorie. Sarebbe opportuno prevenire queste situazioni, piuttosto che intervenire quando si è di fronte ad un’ emergenza o, peggio ancora, quando ci sono vite distrutte dal trauma subito. E’ fondamentale la figura dello psicologo a supporto degli atleti, dell’ allenatore, della
squadra, delle famiglie, e più in generale per tutti coloro che si dedicano alla pianificazione di strategie associate al mondo dello sport volte a migliorare la salute e prevenire il disagio giovanile”.

 

 

 

 

 

https://www.gonews.it/2022/11/18/abusi-sulle-ginnaste-psicologi-toscana-bisogna-lavorare-sulle-federazioni-sportive/

https://www.toscanaindiretta.it/sport/2022/11/18/abusi-sulle-ginnaste-lordine-degli-psicologi-i-giovani-atleti-non-sono-macchine-per-ottenere-medaglie/161335/

Psicolog* dello Sport: chi è e che cosa fa

Chi è lo psicolog* dello sport?

Innanzitutto è psicolog*  dunque laureat* in psicologia e iscritt* all’Ordine degli Psicologi (Albo A) che ha una formazione specifica in ambito sportivo, ottenuta attraverso un master.

Alcuni psicolog* dello sport possono essere  anche psicoterapeut* ma non è obbligatorio avere questa ulteriore specializzazione per operare in ambito sportivo.

La psicologia dello sport è una disciplina relativamente giovane che si è conquistata uno spazio di autonomia all’interno della psicologia. Rientra nella classe della Psicologia Applicata, studia il comportamento umano e i processi psichici nell’ambito dello sviluppo psico-fisico e dell’attività sportiva.

All’interno del mondo dello sport, la figura dello Psicologo sta prendendo sempre più campo e diversi  sono i motivi di questo crescente coinvolgimento. In primo luogo, grazie ad una corretta informazione sulla figura dello psicologo che sta abbattendo numerosi pregiudizi (“A me non serve lo Psicologo dello Sport! Non ho mica problemi!” o “Sto benissimo. Non ho certo l’ansia! quindi a che mi serve? ”o ancora “Mica sono un professionista!”). In seconda istanza, le Olimpiadi di Tokyo 2020, hanno aiutato molto a far luce sull’universo mentale degli atleti in gara: tante sono state le testimonianze circolate sui media, evidenziando ansie e stress ma anche l’importanza di una preparazione mentale quando si fa sport ad alti livelli per il raggiungimento di una performance ottimale.

Troppe volte la figura dello psicologo viene vista in negativo, e associata al malessere; in realtà lo psicolog* non è un nemico dello sport, anzi!!! è assolutamente un valido alleato che mette a disposizione la sua specifica formazione per aiutare gli atleti a incrementare la performance individuale o di gruppo.

Ad oggi, sono tante le ricerche scientifiche che dimostrano come le abilità mentali possono essere allenate e potenziate, incidendo positivamente sulla prestazione. Infatti, a fianco dell’intensa  attività di ricerca si è fatto spazio il lavoro sul campo, che ha permesso la nascita di diverse tecniche e metodologie in grado di potenziare e migliorare il livello di performance degli atleti e delle squadre di varie discipline.

La prestazione ottimale è data da 4 componenti; quella tecnica, quella tattica, quella fisica e quella mentale. Molto spesso è proprio quest’ ultima ad essere decisiva in una gara.

Inoltre, la psicologia dello sport rappresenta una valida risorsa non solo per chi pratica una disciplina ad alti livelli ma anche per tutti coloro che praticano sport, amatori e nonche lavorano nel mondo sportivo (allenatori, dirigenti, tecnici, arbitri, medici, personal trainers, nutrizionisti, etc..) o che vivono il mondo dello sport, per esempio i genitori, possono usufruirne e trarne grandi vantaggi. Quest’ultimi, quando si parla del settore giovanile, rappresentano il target chiave nel lavoro con i più giovani, dal momento che l’obiettivo del lavoro con i bambini e i ragazzi non è tanto la performance quanto piuttosto un sano sviluppo.

Ma il lavoro dello psicologo dello sport spazia anche in altri settori:

  • Area della Terza età: per gli anziani, promuovendo ad esempio lo sviluppo di politiche di promozione dello sport;
  • Area della Riabilitazione (psicotraumatologia): per chi si trova alle prese con la ripresa da un infortunio. In questo settore, lo psicologo interviene sul trauma, sulle paure, sull’ansia da prestazione e sulla perdita di autostima che spesso rendono difficile il ritorno all’attività, ben oltre i tempi fisiologici della riabilitazione fisica.;
  • Area della Disabilità: per le persone con disabilità motorie e cognitive;
  • Area del Fitness: educare a stili di vita attiva e incoraggiare l’adesione a programmi per il fitness, sviluppando o rafforzando delle importanti modalità di cura di sè
  • Area del Wellness: per coloro che praticano attività motoria  al fine di ottenere e mantenere uno stato di benessere psicofisico;
  • Area della ricerca: per promuovere l’ideazione e l’applicazione di metodologie e tecniche sempre più appropriate, aggiornate e trasversali alle aree su menzionate.

Pertanto, seppur nella diversità degli ambiti di applicazione e di obiettivi, lo psicolog* e la psicologia dello sport si rivolgono a tutti coloro che praticano attività fisica e/o sportiva direttamente e a tutti quelli che ne sono coinvolti indirettamente (allenator*, istruttor*, genitori).

Ragione per cui, risulta importante che lo psicologo abbia un’adeguata formazione. Nello scenario attuale, l’ attenzione agli aspetti psicologici della prestazione se da un lato ha fatto crescere il coinvolgimento e il riconoscimento della categoria professionale, dall’altro ha innescato il proliferarsi di nuove figure, di professionisti della mente  senza alcuna formazione e laurea psicologica. Da qui la necessità di un riconoscimento istituzionale della figura dello psicologo dello sport.

Estate: è tempo di bagni al mare. Come aiutare i più piccol* ad avere un sereno rapporto con l’acqua?

Per un  neonato l’ambiente acquatico è quanto di più familiare possa trovare: è nel liquido amniotico che ha trascorso nove mesi di vita intrauterina ed è qui che ha sviluppato i suoi sensi e si è esercitato nei primi movimenti. Non c’è da sorprendersi quindi se i bambini appena nati mostrino un’innata affinità con l’acqua.

Compito dei genitori è e sarà quello di aiutarli a mantenere questa confidenza con l’acqua, fin dalle prime esperienze in piscina, al mare ma anche a casa nelle normali pratiche quotidiane come il bagnetto o la doccia.

Se è vero che molti bambini sembrano essere dei “pesciolini” che passerebbero la vita a sguazzare, è tuttavia altrettanto vero che altri già a pochi mesi di età inizino a rifiutare il contatto con l’acqua. Che cosa fare?

Anche in questo caso, dovranno essere gli adulti, per primi, a cambiare qualcosa del loro  comportamento affinché il rapporto con l’acqua possa diventare per i propri figli qualcosa di piacevole.

Se i genitori hanno paura dell’acqua e con il loro comportamento trasferiscono panico ai figli tutte le volte che hanno a che fare con bagni al mare o in piscina, come possiamo pensare che i più piccoli  possano godersi il momento in totale serenità? Rifiutarsi di prendere contatto con l’acqua sembra essere la strada migliore per la sopravvivenza, di tutti!

E poi, se i genitori sono invece dei pesci che vivrebbero sempre in acqua ma i loro figli no, meglio evitare  drammatizzazioni del tipo “Da chi avrà preso ? Non è figlio mio! Non c’è da avere paura dell’acqua, il bagno al mare è bellissimo”. Non dimentichiamo che qualsiasi forzatura eccessiva non può che irrigidire il bambino e allontanarlo ancora di più dall’obiettivo.

Che cosa possono fare i genitori per aiutare i figli che hanno paura dell’acqua?  Oggi ne abbiamo parlato con Martina Zipoli, istruttrice FIN.

“Sicuramente il primo contatto con l’acqua ha luogo con il bagnetto domestico; di fondamentale importanza risulta quindi rendere questo momento piacevole, avvalendosi di giochi e inserendolo nella routine giornaliera.”

Altra cosa importante da fare è la seguente: procedere con gradualità. “Se il bambino si mostra molto spaventato nei confronti dell’acqua, è bene proporre un avvicinamento progressivo e rassicuranteAll’inizio invitiamolo a bagnarsi  le mani e i piedi; successivamente sproniamolo a fare giochi che ne incoraggino una certa familiarità come i travasi ad esempio. Al mare tutto questo si traduce nel riempire il secchiello o l’annaffiatoio con l’acquaIn questo modo il bambino comincia a prendere familiarità bagnandosi i piedi e magari in un secondo momento possiamo proporgli di fare anche una breve camminata sul bagnasciuga”.

Prima del bagnetto vero e proprio può esserci uno step intermedio ancora. Molte volte a provocare la sensazione di paura non è solo l’acqua in sé, ma anche il disorientamento creato da un eccessivo spazio intorno, soprattutto al mare, con le onde. “Per questo può essere utile incominciare facendo prendere confidenza al bambino con l’acqua usando una piccola piscina gonfiabile, che può fornirgli l’impressione di tenere le cose “sotto controllo”.

Prima di concludere un ultimo valido consiglio: Mettete da subito, da appena nati, i bambini in piscina. Un corso di acquaticità per piccolissimi non serve per ‘imparare a nuotare’, ma può invece essere utilissimo per acquisire confidenza con l’ambiente liquido in modo da non farsi spaventare in seguito da schizzi, immersioni o ‘bevute’ impreviste. Se questo non è stato fatto e i bambini sono più grandi può essere comunque d’aiuto un corso di nuoto per arrivare preparati alla vacanza al mare”.

Tanti tuffi per tutti!

Perché si parla di ansia da prestazione nel contesto sportivo?

” In allenamento tutto bene, quando arrivo in gara un disastro!”

Probabilmente molti di voi si riconosceranno in questa affermazione. Io l’ho sentita pronunciare tante volte dagli atleti.

Quando si parla di sport, si fa riferimento a “una forma di attività fisica che ha diversi obiettivi, tra cui il conseguimento di risultati nel corso di competizioni a tutti i livelli” (CONI, Carta Europea dello Sport 1992).

Per un atleta la gara rappresenta un “esame” che mette in discussione gli investimenti fisici, psicologici e relazionali in ambito sportivo; alla luce di ciò, egli può avere una risposta d’ansia normale o patologica alla competizione.
L ’ansia è un’emozione di cui tutti abbiamo fatto esperienza almeno una volta nella vita. Comunemente pensiamo all’ansia come un ad un fenomeno negativo; questo non è sempre vero, dal momento che l’ansia rappresenta uno “stato di attivazione  fisiologico e comportamentale” (arousal) utile ai fini della sopravvivenza della specie, che ha un forte valore adattivo, permettendoci così di distinguere una situazione pericolosa e di affrontarla.  Quando l’atleta deve compiere una prestazione, il suo organismo si attiva per il suo fronteggiamento. Ed è proprio l’ansia, che permette tutto questo, come carica psicologica e organica. Tuttavia quando l’ansia diventa “troppa”, intensa, ricorrente e persistente non è più utile alla prestazione, ma disfunzionale: da carica vincente a indomabile e pericolosa avversaria. Questa condizione di ansia esagerata, può verificarsi in una singola gara e rimanere dunque un episodio isolato, oppure può succedere che venga esperita con regolarità; in quest’ultima situazione, l’atleta si trova a vivere in modo preoccupato e allarmato tutte le competizioni che dovrà disputare con conseguenti  effetti negativi sulla performance e più in generale sul benessere fisico, psicologico e sociale.

Il primo passo per fronteggiare una risposta d’ansia patologica è proprio quello di conoscere come funziona e imparare ad accoglierla e ascoltarla.

L’informazione che ci vuole dare l’eccitazione ansiosa è che potrebbe esserci qualcosa di pericoloso per noi nel futuro (che sia a breve o a lungo termine). Solo se lasci che il tuo stato ansioso ti parli e ti racconti che cos’è che teme, sarai in grado di attivare le tue risorse razionali per regolare un’attivazione eccessiva, che non ti consente di concentrarti e di prepararti adeguatamente.

 

 

PRIMAVERA FORMATO FAMIGLIA: i benefici dello sport all’aria aperta per genitori e figli

La primavera porta con sé il desiderio di trascorrere lunghe giornate all’aria aperta, approfittando delle temperature ancora non troppo calde e dunque ideali per fare movimento.

Al parco, in giardino, al mare e in montagna: ogni luogo offre la possibilità di praticare sport semplici e adatti a tutti; infatti, si tratta di attività per le quali non occorre una particolare preparazione fisica e proprio questo ideali per il nucleo familiare al completo.

Numerosi sono gli sport che si possono praticare insieme ai figli all’aria aperta: camminare, fare trekking, andare in bicicletta, pattinare, nuotare, ecc … Indipendentemente dall’attività che si decide di fare, quali sono i benefici per la famiglia?

Scegliere di praticare uno sport all’aria aperta con i propri cari rappresenta un’ottima occasione per trascorrere il tempo insieme in maniera sana e divertente. I ritmi frenetici di vita a cui spesso sono sottoposte le nostre famiglie impediscono ai suoi componenti di trovare un tempo e uno spazio per uno scambio e un confronto, aspetti –questi- di vitale importanza per il benessere di tutti. Il tempo da passare insieme in famiglia è fondamentale: creare un appuntamento fisso per il fine settimana rafforza i legami, rende più uniti e al tempo stesso serve come valvola di sfogo, soprattutto per i più piccoli di casa.

Inoltre, quando in settimana viene organizzato l’appuntamento sportivo per il weekend, lasciate che i vostri figli vi aiutino nella pianificazione, condividendo con loro idee e proposte.

Una raccomandazione: quando si parla di bambini non dimentichiamoci che la componente ludica è essenziale e insostituibile; attraverso il gioco, il piccolo inizia a comprendere il funzionamento degli oggetti che lo circondano e ad interagire con il mondo. Grazie a questa esperienza “sul campo” potrebbe nascere nei nostri figli l’interesse per una qualche disciplina sportiva.

In secondo luogo, impegnarsi in un’attività sportiva con la famiglia rappresenta un valido antidoto verso cellulari, tablet e social network. Questo aspetto è importante sia quando si parla di bambini, ma anche e soprattutto di adolescenti. In queste occasioni, ricordiamoci che noi genitori siamo dei modelli per i nostri figli: se desideriamo che quest’ultimi non passino tutto il tempo a spippolare sul cellulare, dobbiamo essere noi, in primis, a dare il buon esempio, astenendoci da un uso eccessivo del telefonino. Abbiamo una grande responsabilità in quanto adulti, dobbiamo esserne consapevoli: solo così possiamo promuovere e sostenere una pratica sportiva capace di veicolare esperienze e contenuti educativi. Infatti, la potenzialità formativa dello sport nella crescita di bambini e ragazzi altro non è che il frutto dei valori, delle motivazioni, delle aspettative, degli obiettivi di noi adulti.

Allora, cosa aspettate? Le lunghe giornate primaverili vi aspettano!

Dimagrire è anche una questione di testa

Le feste sono da poco finite e come da programma, molte persone si adoperano per il raggiungimento dei buoni propositi per l’anno nuovo: primo tra tutti, quello di perdere peso.

Cosa succede a livello mentale quando si decide di intraprendere una dieta? Quali sono le possibili insidie?

Intanto partiamo da questo dato di fatto: volente o nolente, il rapporto con il cibo si modificaalcuni cibi, come cioccolata, patatine, dolci e pizza, non si configurano più come alimenti, ma diventano dei potenziali nemici da allontanare che innescano una condizione di allerta permanente. Inizia così una battaglia finalizzata a difendersi dal desiderio di alcuni cibi. Pensieri come “Non devo mangiare dolci” oppure “Non posso mangiare cioccolata” potrebbero essere molto pericolosi in quanto parlare in negativo al cervello è controproducente poiché direziona l’attenzione proprio su ciò che si vuole evitare.

Stare a dieta, non deve diventare una lotta contro se stessi né tantomeno, una lotta contro la propria forza di volontà: il dimagrimento non può e non deve diventare l’unico obiettivo della propria vita.

Affinché una dieta sia davvero efficace, occorre anche lavorare sulla consapevolezza del proprio mondo interno, sulla consapevolezza dei propri punti di forza e di debolezza, dei propri bisogni ma anche dei pensieri e delle emozioni che sottendono il nostro comportamento alimentare.

Troppe volte il cibo finisce per trasformarsi in una sorta di anestetico con cui si cerca di eliminare la sofferenza o l’insoddisfazione, una scorciatoia con cui si tenta di riempire il senso di vuoto.

Dimagrire non è solo una questione di quanti chili si perdono, quante calorie dobbiamo assumere giornalmente, ma si tratta piuttosto di una trasformazione che coinvolge interamente una persona perché ha a che fare sia col corpo che con la mente che sono in continua connessione. E forse più che parlare di dieta, sarebbe utile parlare di “stile di vita” che non va quindi seguito per un breve periodo ma il più a lungo possibile: una scelta di benessere che ha un inizio e non una fine perché il significato è prendersi cura di se stessi e questo dovrebbe durare tutta la vita.

Ecco che il lavoro dello psicologo diventa fondamentale: un valido aiuto per preparare o accompagnare la persona durante questo percorso, individuando e gestendo i possibili ostacoli e  per ottenere e mantenere risultati ottimali nel tempo.

La definizione degli obiettivi nello sport

La tecnica del goal setting o formulazione degli obiettivi è una strategia molto usata e utile nell’ambito della psicologia dello sport.

Io uso moltissimo questo strumento con i miei atleti, soprattutto all’inizio della stagione sportiva.

L’ applicazione della tecnica è facile di per sé e se vogliamo anche veloce (non più di un’ora) tuttavia è necessario un lavoro profondo, di grande consapevolezza da parte dell’atleta che in alcuni casi può necessitare di un sostegno  più prolungato da parte dello psicologo per raggiungere quanto stabilito.

Il goal setting può essere fatto individualmente o in gruppo e preferibilmente con la partecipazione dell’allenatore.  

La condivisione degli obiettivi tra l’atleta e tutte le figure significative che lo circondano è di fondamentale importanza poiché spesso accade che la mancata corrispondenza tra gli obiettivi individuati dall’atleta e quelli dell’ allenatore (talvolta anche tra quelli della società) può inficiare l’esito della prestazione.

Anche se l’esperienza di goal setting di ogni sportivo è soggettiva, è possibile dare una definizione generale delle caratteristiche di questa tecnica. Andiamo a vedere di cosa si tratta.

Intanto, Che cos’è un obiettivo? Possiamo definire un obiettivo “ uno scopo, una meta, un  risultato che ci si propone di ottenere (www.garzantilinguistica.it). Solitamente ciò avviene attraverso il ricorso a strategie e individuando un intervallo temporale entro cui vorremmo che l’obiettivo si realizzi.  Il fattore tempo è importantissimo, ragione per cui occorre individuare e definire obiettivi a breve, medio e lungo termine.

Gli OBIETTIVI A BREVE TERMINE sono quelli che ci prefiggiamo di raggiungere nel giro di pochi mesi, in un tempo molto breve quindi. Sono gli obiettivi su cui focalizziamo la nostra attività all’inizio dell’anno sportivo, permettendoci così una prima valutazione della nostra performance. Si tratta di obiettivi che definiremo di “prestazione o performance” vale a dire quelli che si focalizzano sull’acquisizione o sul perfezionamento di un gesto atletico o di una certa abilità mentale.

GLI OBIETTIVI A MEDIO TERMINE, si riferiscono ai risultati che vorremmo ottenere all’incirca a metà della stagione sportiva (entro 6 mesi). Questi obiettivi mettono a fuoco la direzione verso cui stiamo andando, facendo emergere ciò che serve per andare avanti.

GLI OBIETTIVI A LUNGO TERMINE sono quelli che vorremmo raggiungere attraverso l’intera annata sportiva, offrendoci così una pianificazione generale di quello che sarà il nostro percorso sportivo. Gli obiettivi a lungo termine stimolano in maniera attiva l’atleta, soprattutto se protagonisti sono i più giovani, maggiormente esposti a un’organizzazione serrata dei ritmi di studio (o lavoro) con gli impegni sportivi.

Oltre al fattore tempo, affinché la tecnica del goal setting sia efficace è fondamentale che gli obiettivi:

  • vengano formulati in maniera chiara e precisa e che siano raggiungibili per l’atleta.

Al contrario, obiettivi ambiziosi o mete troppo vaghe possono esporre l’atleta (e il suo staff) a insuccessi e frustrazioni.

  • Siano misurabili: ciò permette di analizzare nei dettagli il risultato ottenuto e di assegnargli un

punteggio (ad esempio su una scala da zero a dieci) al fine di comprendere cosa ha funzionato e cosa, invece, sarà necessario andare a migliorare.

  • Siano espressi in positivo: le ricerche hanno evidenziato che, in alcuni casi, sia inefficace concentrarsi su obiettivi caratterizzati da frasi che contengono il “non” (es. non devo fare errori, non devo compiere movimento, non devo essere così rigido). Solitamente così facendo otteniamo l’esatto contrario di quello che vogliamo.
  • Siano flessibili; infatti, potrebbe capitare che un atleta si accorga di non essere in grado di raggiungere l’obiettivo prestabilito ad esempio per l’insorgere di un infortunio. Per non vanificare gli impegni di un’ intera stagione sportiva, la strategia migliore sarà quella di ridefinire gli obiettivi prefissati per poter essere sempre motivati a dare il massimo per il loro conseguimento.

Tutte queste indicazioni offrono numerosi vantaggi a livello di prestazione come evidenziato dalla letteratura.  Nello specifico sottolineo l’importanza del goal setting nel dirigere l’attenzione e l’azione dell’atleta e dunque nel modulare l’energia.  Inoltre, la definizione degli obiettivi non funzionale solo alla motivazione e all’ impegno dell’atleta nel qui ed ora ma aiutano anche a prolungare lo sforzo e la persistenza nel tempo. 

Uno per tutti, tutti per uno! Il lavoro dello psicologo all’ interno di una squadra

Quando uno psicologo dello sport inizia un percorso con una squadra, il suo operato non può prescindere dal coinvolgimento del coach. Questo è il primo intervento in campo. E’ fondamentale stabilire con l’allenatore una relazione di fiducia e di scambio reciproco. Perché?

Perché l’allenatore ricopre il ruolo di leader all’ interno di una squadra, guidando i suoi atleti nel complesso dell’attività sportiva che li accomuna. E dunque, anche la riuscita di un lavoro di preparazione mentale per il gruppo dipende dalla sua figura, che diventa quella di facilitatore delle tecniche che lo psicologo insegna alla squadra.

Secondo step importante nel lavoro con una squadra è favorire e costruire il senso di appartenenza al gruppo, ovvero creare la mentalità del “noi”. Lewin (1972) ha definito il gruppo come “una totalità dinamica in cui i membri si trovano in un rapporto di interdipendenza e perseguono un fine comune”. Il gruppo non è la somma dei suoi membri e delle loro caratteristiche personali, è qualcosa di più: il suo elemento distintivo sono le dinamiche che si creano al suo interno. Se il discorso si focalizza sulla squadra sportiva, essa può esser definita come un piccolo gruppo orientato al compito e alla prestazionei cui membri sono interdipendenti, vogliono raggiungere un fine condiviso e sviluppano una identità collettiva. Sono contemporaneamente coinvolti nello sforzo fisico individuale teso al raggiungimento di questo fine, consapevoli che la realizzazione di questultimo dipende dalla collaborazione e dall’ integrazione delle peculiari capacità e caratteristiche di ogni individuo con il resto del gruppo. Il lavoro dello psicologo ha l’obiettivo da una parte di promuovere la nascita e lo sviluppo di sentimenti e atteggiamenti positivi verso l’ ingroup; dall’altra, incoraggiare e dare visibilità a questo senso di appartenenza che è l’essenza stessa del gruppo. Per capire meglio, vi faccio un esempio. Sicuramente tutti voi conoscerete la danza degli “All Blacks”, i giocatori della nazionale neozelandese di rugby , i quali all’ inizio di ogni partita eseguono un complesso rituale maori di fronte agli avversari. L’avere qualche cosa di comune favorisce infatti l’identificazione reciproca tra i membri e la demarcazione dagli altri gruppi.

Infine, ma non per importanza, se la squadra è composta da bambini e adolescenti, il lavoro dello psicologo e dell’allenatore deve coinvolgere anche i genitori.

“Uno per tutti, tutti per uno!” non è solo il motto dell’allenatore e della sua squadra ma deve diventare anche quello dei genitori. E’ grazie a quest’ultimi, al loro prezioso ruolo di supporto nella vita sportiva dei figli, che gli obiettivi fissati e i risultati da raggiungere possono essere conquistati. Per mantenere un buon rapporto con i genitori è fondamentale incontrarli prima di ogni stagione per condividere le modalità operative e comprendere quali sono le loro aspettative. Molto spesso è proprio a questo livello, a livello delle aspettative, che si insinuano criticità tra allenatore, famiglie e società e dunque il supporto dello psicologo può fare la differenza.

 

“VOGLIO FARE NUOTO” Quali sono i fattori che influiscono sulla scelta di uno sport e sulla motivazione dei più piccoli

L’attività sportiva  ha un’importanza fondamentale nello sviluppo fisico, psicologico e relazionale di bambini e bambine, di ragazzi e ragazze.

Ma come si arriva alla scelta di un determinato sport? Come genitori occorre assolutamente arrivare preparati a questo momento, conoscendo i fattori che possono influenzare la scelta. E quindi prima o poi accadrà che un/una figlio/a  si presenti  con la fatidica domanda “Voglio fare nuoto. Mi porti a provarlo?”. 

Da dove nasce l’interesse per questa specifica disciplina?

Diversi sono i fattori che lo muovono verso il nuoto. Può darsi che sia attratto perché in vacanza  si è divertito a fare lunghi bagni in acqua, oppure perché lo fa l’amico/a del cuore o perché qualcuno in famiglia lo ha fatto da giovane e gli è stato raccontato oppure ancora perché lo ha visto in televisione alle Olimpiadi . Ognuno di questi fattori ha una sua influenza peculiare non solo rispetto alla scelta e quindi all’avviamento di un determinato sport, ma anche rispetto al suo mantenimento. Tutto ciò è riassumibile nel concetto di motivazione allo sport. Quando si parla di motivazione, si fa riferimento alla spinta dell’individuo ad agire ed a mettere in atto comportamenti orientati a uno scopo. Affinché si inizi nella propria vita a praticare una qualsiasi attività, infatti, è necessaria una spinta, una causa, appunto una motivazione.

Nel caso in cui la scelta sia dettata da un’esperienza diretta sul campo, come i bagni al mare, l’avviamento sarà agevolato e sostenuto da un’ alta motivazione. Quest’ultima, sarà fondamentale anche nel mantenimento di quella specifica disciplina nel tempo.

Quando invece la decisione è dettata dall’amico/a del cuore, l’accesso allo sport sarà facilitato e sostenuto dalla condivisione, ma non è detto che la l’interesse per quella disciplina si mantenga stabile nel tempo: il rischio di abbandono potrebbe essere dietro l’angolo.

Se invece la scelta è indirizzata verso lo sport che hanno fatto i genitori, occorre comprendere la reale motivazione che sta dietro questa decisione. E’ il/la figlio/a che ha scelto perché si è appassionato/a di uno sport tanto raccontato a casa oppure è il genitore che ha “indirizzato” questa decisione  probabilmente  per  un   riscatto   personale   per   traguardi   che   non   è   riuscito   a   raggiungere? In quest’ultimo caso gli effetti negativi potrebbero non essere solo a livello della pratica sportiva, e dunque traducibili in un precoce drop-out, ma anche a livello più generale sullo sviluppo psicologico, come ad esempio sull’autostima e sul senso di autoefficacia.

Sicuramente la prima situazione, che vede il/la figlio/a scegliere autonomamente lo sport da praticare sulla base della propria esperienza, è la condizione migliore  ma senza un adeguato supporto da parte degli adulti, dei genitori e dell’allenatore, non è detto che possa durare nel tempo. È proprio il sostegno da parte degli adulti significativi che può fare la differenza anche nei casi in cui la motivazione è bassa, o comunque labile.  In che modo allora, in qualità di genitori, possiamo aiutare i figli a maturare la passione e l’interesse per quello sport? Per prima cosa dobbiamo essere empatici, che vuol dire aiutarli a stare dentro gli impegni presi, accompagnarli nel loro percorso, stando attenti a ciò che ci chiedono soprattutto con il corpo, con il linguaggio non-verbale, perché con quello verbale a volte non sono in grado di esprimersi, soprattutto i più piccoli. C’è chi ha bisogno di essere sostenuto, incoraggiato e chi ha bisogno di essere lasciato in pace, cioè di vivere un’esperienza, accompagnato sì, ma messo in grado di potersi confrontare da solo col mondo. È un diritto dei minori sperimentarsi, nel bene e nel male, senza il controllo diretto dei genitori anche sapendo che un altro adulto vigila su di loro. Inoltre, fondamentale è la consapevolezza dei nostri schemi emotivi, che si traduce nel saper gestire le nostre emozioni e i nostri atteggiamenti e nell’ essere consapevoli dell’importante ruolo educativo che si sta svolgendo in quel momento.

 

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