Allenatori non si nasce, si diventa! Le prime esperienze sul campo: rischi e potenzialità

Molte volte, nella mia attività di formatrice in ambito sportivo, mi sono trovata a tenere lezioni ad aspiranti allenatori. Queste docenze sono per me molto importanti perché permettono di coniugare le mie due grandi passioni: lo sport e la psicologia. Non solo. La mia esperienza di atleta ma anche di tecnico mi consentono di avere un occhio “allenato” nei confronti di tutte quelle situazioni potenzialmente a rischio verso le quali un aspirante istruttore può imbattersi e che dunque necessitano di approfondimento. Andiamo a esaminarle. Come già sottolineato, l’allenatore, insieme ai genitori e agli insegnanti, rappresenta un pilastro fondamentale nell’educazione e nello sviluppo di bambini e ragazzi. Per garantire ciò, l’istruttore deve offrire ai piccoli atleti un contesto dove possono divertirsi. Questo obiettivo può risultare ovvio, quasi scontato, ma di fatto spesso viene dimenticato. Come mai? La prima riflessione che dobbiamo porci è questa: che cosa spinge una persona a decidere di diventare allenatore? Nella stragrande maggioranza dei casi, mi confronto con interlocutori molto giovani, che arrivano a intraprendere il percorso formativo alla fine della loro carriera da atleti, mossi dall’idea di guadagnare qualche soldo continuando a coltivare la loro grande passione.  Fino a qui a tutto bene, anzi la passione è una virtù che rappresenta un ottimo punto di partenza nel mestiere di allenatore. Il problema semmai è un altro: freschi della loro esperienza agonistica, molti istruttori rischiano di impostare l’allenamento su aspetti troppo tecnici, tralasciando il gioco e il divertimento. Quando un bambino arriva a fare uno sport non sappiamo qual è la sua motivazione: se vogliamo che quel piccolo atleta si appassioni e rimanga a praticare la disciplina scelta a lungo, dobbiamo offrirgli un ambiente dove stia bene, dove i suoi bisogni vengano soddisfatti. Il divertimento è senza dubbio il bisogno che accomuna tutti i bambini e, come sottolinea la Carta dei Diritti dell’Infanzia, deve essere assolutamente garantito. Per usare le parole di un grande atleta*“C’è un circolo virtuoso nello sport: più ti diverti più ti alleni; più ti alleni più migliori; più migliori più ti diverti”. Questo deve diventare in assoluto il mantra di tutti gli allenatori, di coloro che lavoro con i bambini ma anche di chi si occupa di atleti più adulti: divertirsi è sano e fondamentale a tutte le età. Quando il divertimento non viene garantito, il rischio a cui si espongono i più giovani è l’abbandono sportivo. Gli effetti benefici dell’attività motoria a livello fisico, psicologico e sociale sono oggi abbondantemente dimostrati: allora perché privare i più piccoli di questa possibilità? Quando si parla di minori, la responsabilità del loro benessere è nelle mani degli adulti che sono per loro significativi. Per chi fa sport, l’allenatore è uno di questi. Come si fa dunque a essere dei buoni tecnici e quindi a garantire un ambiente idoneo alla crescita sportiva (e non solo) dei più piccoli? Innanzitutto è opportuno usare un linguaggio semplice, facilmente comprensibile e adatto all’età dei bambini che abbiamo di fronte ma soprattutto è fondamentale servirsi e proporre esempi concreti, far vedere come un esercizio va svolto e dare loro la possibilità di provarlo. Tutti questi accorgimenti mantengono viva l’attenzione, aiutano la memoria e dunque facilitano il processo di apprendimento. Anche variare la presentazione di uno stesso esercizio e supportarne la spiegazione avvalendosi di elementi ludici sono strategie che tengono lontana la noia, incrementano la capacità di concentrazione degli atleti e forniscono un forte impulso motivazionale.

Infine altro accorgimento utile su un piano metodologico è quello di coinvolgere attivamente i giovani atleti nell’allenamento: in che modo? Lasciando loro del tempo per esprimersi liberamente, permettendo che a turno possano scegliere un gioco da fare in gruppo, oppure coinvolgendoli come assistenti, magari nella spiegazione di un esercizio o nel fornire un esempio concreto agli altri. La partecipazione attiva dei più piccoli all’interno del gruppo favorisce lo sviluppo del senso di appartenenza, requisito fondamentale per prevenire l’abbandono sportivo e sostenere la crescita di un atleta all’interno della società; inoltre, promuove lo sviluppo dell’autostima e della fiducia in se stessi, caratteristiche che sono alla base della salute mentale in età evolutiva e la chiave del benessere psicologico in età adulta.

Per concludere, saper insegnare con efficacia, saper interessare, incuriosire e coinvolgere i propri atleti è una vera arte che non bisogna affatto sottovalutare, anzi! E’ fondamentale coltivarla con amore, impegno e serietà. Buon lavoro!

                                                                                                                                

 

*Pancho Gonzales

AMMALARSI DI SPORT: QUANDO L’ATTIVITA’ FISICA DIVENTA UN’OSSESSIONE

Fino ad oggi, gli articoli pubblicati sul blog hanno esaltato gli innumerevoli benefici dello sport sia su un piano fisico ma anche (e soprattutto!) a livello psicologico e relazionale.

Il fitness fa bene al corpo e alla mente, “mens sana in corpore sano” dicevano i latini. Può succedere però  che il fare attività fisica si trasformi in un pensiero costante. In questo caso, si parla di dipendenza da sport: l’esercizio fisico prende il sopravvento e diventa prioritario su tutti gli altri settori della vita: il troppo stroppia! 

 

Quali sono i segnali che ci fanno capire che il limite è stato superato?

Se lo sport diventa “troppo”, la mente si polarizza solo e soltanto sull’organizzazione della giornata all’insegna dell’esercizio fisico. Un tale forma mentis comporta l’incapacità di concentrarsi su altre attività, essendo il fitness l’unico pensiero ricorrente. Ne consegue, che lo sport, divenendo un vero e proprio “chiodo fisso”, finisce per anteporsi ad altri settori importanti della vita, come la famiglia, il lavoro, all’interno dei quali possono insorgere delle difficoltà o problematiche che prima non erano presenti.

E visto che questo fenomeno è a tutti gli effetti una dipendenza, non dovremmo meravigliarsi se tra i comportamenti tipici, e dunque di allarme, troviamo proprio quelli di chi ha una dipendenza da sostanze. Tra questi, ad esempio, riscontriamo l’aumento graduale della quantità di esercizio per ottenere benessere (fenomeno della tolleranza); il disagio fisico o psicologico in relazione alla riduzione o alla cessazione delle sedute di allenamento, che possono portare ad una vera e propria crisi di astinenza con i suoi sintomi peculiari: in mancanza dell’esercizio l’individuo sperimenta effetti negativi quali ansia, irritabilità e problemi legati al sonno. Rispetto però alla dipendenza da sostanze, quella da sport spesso non viene riconosciuta socialmente come tale.  Nel   caso   dello   sport   compulsivo   la   dipendenza   che   si   viene   a   creare   è    qualcosa   che   la   stessa   società   reputa   come   salutare   e   positiva.  Questo   rende   ancor   più   difficile   per   la   persona   accorgersi   che   qualcosa   non   va   più   come   prima.

Inoltre, va segnalata la frequente presenza di anoressia e bulimia nervosa associate alla “pratica fisica dipendente” e alimentate dalle stesse motivazioni di controllo del peso e dell’aspetto fisico, soprattutto nelle donne, anche se i casi che riguardano il sesso maschile sono in aumento

 

Come si interviene?

Alla luce di quanto appena descritto, evidenti sono i meccanismi psicologici che alimentano e sorreggono questo tipo di dipendenza. Ne consegue che l’interruzione della pratica sportiva non rappresenta, di per se stessa, la strada che porta alla guarigione, anzi! Laddove è presente anche un disturbo dell’alimentazione, non è raro infatti riscontrare che il tentativo superficiale di sospensione della dipendenza sportiva possa addirittura aggravare la problematica connessa al controllo del cibo.

Un obiettivo importante sarà proprio quello di ritornare ad un esercizio adeguato dal momento che, come sottolineato più volte un’attività fisica moderata è da considerarsi una sana abitudine. Per raggiungere questo obiettivo, che sembra così semplice e lineare, in realtà vanno ricercate e risolte, le cause psicologiche sottostanti la dipendenza; e molto spesso agire da soli, senza l’aiuto di uno psicologo è davvero difficile. Anche perché, come anticipato sopra, la consapevolezza di avere un problema di dipendenza raramente è presente e quando lo è non è detto che incoraggi il cambiamento. E allora? Oltre alle cause psicologiche è necessario rintracciare le cause relazionali che hanno generato il disturbo. Perché una persona arriva a polarizzare tutta la sua vita nell’esercizio fisico? Quali sono state le esperienze relazionali pregresse che lo hanno portato a investire tutto sull’ attività sportiva fino ad arrivare ad esserne dipendente? Molto spesso chi trova rifugio in una dipendenza patologica è stato vittima di un controllo eccessivo da parte delle figure genitoriali, che ha minato lo sviluppo dell’autostima e della fiducia in sé. L’interiorizzazione di vissuti di inadeguatezza accrescono nel bambino e nel futuro adulto la convinzione di non potercela fare da solo e dunque il bisogno di dipendenza. Il dedicarsi in maniera eccessiva ad uno sport risponde a questo bisogno. Non solo, riesce anche ad offrire un appannaggio di indipendenza e l’ illusione di avere il controllo della situazione. Conoscere le dinamiche relazionali che hanno indotto e sostenuto lo sviluppo di una dipendenza è il primo passo per poter cambiare un comportamento disfunzionale e intraprendere la via della guarigione. 

 

 

La riabilitazione di un infortunio è anche psicologica

 

 

Chi pratica sport, sia a livello agonistico che a livello amatoriale, prima o poi può imbattersi in un infortunio. Quest’ultimo rappresenta un evento destabilizzante le cui conseguenze si manifestano non solo a livello fisico ma anche e soprattutto a livello dell’equilibrio emotivo e psicologico. Vediamo cosa succede nello specifico.

Solitamente l’infortunio si presenta nella vita degli atleti senza preavviso: lo sportivo non può fare altro che arrendersi al suo decorso. Razionalmente la situazione è questa anche se praticamente per un atleta questa ”resa” non è affatto facile, anzi! Il fattore tempo per molti può diventare un’ ossessione; infatti, la prima domanda che uno sportivo si pone al momento del trauma è la seguente: “Quando potrò riprendere?”. Interrogativo che molto spesso diventa anche quello della società e dei genitori, quando l’ infortunato è un minore. L’atleta tenta così di gestire il danno subito focalizzandosi su immediate fantasie di ripresa; ma quando arriva la consapevolezza che il tempo di recupero è connesso al trauma subito e darne un’indicazione precisa non è possibile, l’incertezza diventa protagonista. Il non sapere quando sarà possibile tornare ad allenarsi e partecipare alle gare, mette in discussione gli investimenti e gli sforzi fatti fino a quel momento, vanificando gli obiettivi della stagione sportiva. L’atleta vive così un forte smarrimento e spesso anche una grande solitudine, poiché è costretto ad allontanarsi dall’ ambiente sportivo, vissuto come una seconda famiglia.

Non solo. Quando il recupero procede positivamente e il rientro in campo è oramai vicino, il ricordo traumatico dell’evento traumatico può ripresentarsi con forza, portando l’atleta a vivere con preoccupazione e insicurezza l’allenamento. Questa condizione risulta essere molto pericolosa, perché può condurre a nuovi infortuni e in casi più gravi, quando l’ansia diventa ingestibile, spingere l’ atleta ad abbandonare l’attività sportiva.

Si comprende bene quanto i fattori psicologici abbiano un impatto significativo non soltanto sul benessere generale dell’atleta, ma anche sul decorso dell’infortunio. Quest’ultimo, se gestito con superficialità può essere un fattore di rischio per il ritorno alle gare dell’atleta.

L’ intervento dello psicologo dello sport risulta fondamentale quando si presenta un infortunio: la riabilitazione è anche psicologica.

L’atleta infortunato per tornare ad allenarsi con fiducia deve riconquistare la sua identità di sportivo.

Lo psicologo dello sport offre il supporto necessario per mantenere alto il livello di motivazione nei confronti del processo riabilitativo, che spesso è già di per sé faticoso e stressante, promuovendo un atteggiamento mentale positivo e individuando con l’atleta strategie e risorse per affrontare l’infortunio e garantire un  rientro all’attività  sportiva il più sicuro e veloce possibile.

L’importanza del lavoro psicologico è racchiusa in questo aforisma “Guarire è toccare con amore ciò che abbiamo precedentemente toccato con paura”. S. Levine

L’abbandono sportivo: un fenomeno in crescita

L’abbandono sportivo o drop-out è un fenomeno che interessa soprattutto i giovani atleti.  La fascia d’età più a rischio è quella tra i 14 e i 15 anni, anche se ricerche recenti mettono in luce che già dopo la scuola primaria, i bambini italiani cominciano ad allontanarsi dalla pratica sportiva.

Perché si abbandona lo sport?

Diversi sono i fattori che possono incidere sul fenomeno del drop-out.

Intanto c’è da dire che l’abbandono sportivo può essere considerato “fisiologico” quando si parla di soggetti in crescita, essendo inevitabile un cambiamento di interessi e priorità nelle loro vite. Sono soprattutto gli impegni scolastici a spingere i ragazzi all’abbandono, anche se in questi casi il soggetto può dirsi comunque soddisfatto della propria esperienza sportiva, riavvicinandosi a una qualche forma di attività fisica non  appena riesce a organizzarsi con lo studio. Può succedere anche che la scelta non sia volontaria ma forzata, come quando un atleta subisce un grave infortunio, quando viene allontanato dalla squadra oppure quando mancano risorse esterne per permettergli di continuare l’attività (ad esempio mezzi finanziari o impianti ed attrezzature idonee). In questi casi il ritorno alla pratica sportiva negli anni futuri non è scontato. Come anticipato in un precedente articolo, quando si parla di drop-out la motivazione riveste un ruolo centrale: i bambini e i ragazzi abbandonano lo sport quando la spinta a fare un’ attività e l’impegno a mantenerla in modo continuativo dipendono da fattori esterni. La scelta di fare uno sport perché lo fa l’amico del cuore o il praticare una disciplina per volontà di un genitore, per un suo riscatto personale, sono spinte troppo deboli affinché la pratica sportiva possa essere mantenuta nel tempo. Anche la pressione eccessiva al successo o la spinta a fare agonismo troppo precocemente da parte della società possono essere fattori inibenti la motivazione, da cui spesso possono nascere forme di sdegno e di risentimento verso l’attività sportiva in generale, allontanando i più giovani da palazzetti e palestre per molti anni.

La conoscenza dei fattori che spingono al drop-out sportivo in età giovanile rappresenta il punto di partenza per favorire la prevenzione del fenomeno; e come sempre accade quando parliamo di bambini e ragazzi la responsabilità di un possibile cambiamento spetta agli adulti di riferimento.

Come riportato dal CISSPAT LAB a livello nazionale le buone prassi per prevenire l’abbandono dell’attività sportiva sono:

  1. La prima regola fondamentale per prevenire l’abbandono dell’attività sportiva è la capacità dei genitori di saper distinguere tra le proprie motivazioni e quelle dei propri figli; lo sport deve essere scelto dai ragazzi, secondo i loro gusti e le loro inclinazioni.
  2. La cultura con cui si affronta l’attività sportiva dovrebbe essere condivisa sia dai genitori che dagli allenatori: il focus non è il risultato, ma l’importanza dello sport come strumento di sviluppo e crescita, oltre che come fonte di divertimento e gratificazione. È solo adottando un comportamento coerente tra questo pensiero e il proprio comportamento che le figure adulte che ruotano intorno allo sport possono trasmettere l’importanza di un certo tipo di cultura sportiva ai ragazzi.
  3. L’importanza di sostenere e incoraggiare i ragazzi, evitando aspettative troppo elevate e pressioni esagerate; utilizzare critiche costruttive ed edificanti, cercando sempre di gratificare i ragazzi per i piccoli successi.
  4. Il ruolo dell’allenatore è molto importante: esso non può limitarsi a insegnare tecniche, in quanto il ruolo educativo è intrinseco al suo lavoro.
  5. Facilitare la creazione di un clima positivo all’interno della squadra, favorendo una gestione costruttiva dei conflitti nel gruppo. E’ importante sviluppare condivisione e la definizione di obiettivi comuni tra i giocatori.

Le buone pratiche appena descritte non dovrebbero rappresentare un punto di arrivo quanto piuttosto un punto di partenza; dovrebbero divenire stimoli su cui riflettere ed essere tradotte in interventi ad hoc. Così si può fare prevenzione e contrastare il fenomeno sul nascere. E qui la figura dello psicologo può fare la differenza: la sua presenza, a fianco dell’allenatore e della squadra, risulta assolutamente fondamentale per intervenire precocemente su eventuali situazioni critiche estirpandole da subito. Saper chiedere aiuto è un atto di coraggio, un’ ammissione di responsabilità doverosa soprattutto nei confronti dei più piccoli.

L’ ansia da gara: alleata o nemica? II PARTE Conoscerla per gestirla

Come dicevamo nel precedente articolo, l’ansia è un’emozione che ci appartiene ed è una nostra alleata, sia nello sport che nella vita di tutti i giorni.

Alla luce di ciò, non dobbiamo combattere l’ansia per superarla, ma imparare a comprenderla e gestirla.

A livello corporeo quali sono i segnali che ci fanno capire che stiamo vivendo una crisi d’ansia?

Attualmente, le principali alterazioni fisiologiche più documentate sono:

  • respirazione superficiale e periferica molto veloce;
  • aumento della frequenza cardiaca;
  • possibili aritmie;
  • aumento della tensione muscolare;
  • aumento della sudorazione, anche in assenza di movimento fisico o temperature troppo elevate;
  • sensazione di pesantezza alla bocca dello stomaco;
  • vomito e diarrea;
  • irrequietezza;

Questi sono solo alcuni dei possibili sintomi che un atleta può manifestare.

Indipendentemente dalla reazione corporea mostrata, l’impatto sulla performance dello sportivo è deleterio, in quanto si verifica un esaurimento delle sue energie fisiche e mentali.

Negli adulti spesso questi sintomi sono accompagnati da una serie di vissuti spiacevoli, di pensieri, di fantasie la cui percezione aumenta ancor più il disagio e l’apprensione. Inoltre è presente la sensazione di impotenza nell’affrontare ciò che sta accadendo.

Nei bambini invece i vissuti soggettivi di spiacevolezza o di angoscia non sono presenti: è difficile per loro esprimere a parole il turbine emotivo che stanno vivendo. E’ importante, dunque, saper osservare le manifestazioni corporee dei più piccoli e i comportamenti agiti, in modo da imparare a riconoscere il loro disagio.

Inoltre, la sindrome ansiosa è personale: non tutti gli atleti presentano gli stessi sintomi; alcuni manifestano la loro ansia principalmente a livello corporeo, altri invece a livello comportamentale e soggettivo (variabilità interindividuale). In più, lo stesso atleta può manifestare il proprio stato ansioso in modo diverso, ad esempio in competizioni differenti (variabilità intraindividuale).

Queste informazioni sono utili ai fini dell’intervento: non esiste una strategia che funzioni sempre, per qualsiasi persona, e in qualsiasi situazione. E sempre a proposito dell’intervento, non dobbiamo assolutamente dimenticarci, come sottolineavo all’inizio, che l’ansia non è una malattia e dunque non va curata, soprattutto ricorrendo ai farmaci. Le malattie vanno curate, le emozioni e gli stati emozionali vanno compresi, gestiti e risolti. Soprattutto quando il livello di ansia aumenta, al punto di essere esagerato rispetto alla prestazione, e questa condizione si cronicizza estendendosi a tutte le competizioni disputate e spesso anche alle sedute di allenamento, risulta fondamentale rivolgersi ad un professionista, ad uno psicologo. Quest’ultimo dovrà essere preparato sia rispetto alla gestione delle emozioni ma dovrà anche avere una buona conoscenza dello sport. Non solo, quando protagonisti sono i più giovani, bambini e adolescenti, è utile coinvolgere e lavorare con i genitori e con gli allenatori, l’unione fa la forza!

Quando l’ansia da prestazione viene risolta, i risultati positivi non si osservano solo a livello della performance sportiva ma a livello più generale si inizia “naturalmente” a vivere meglio.

L’ansia come molte emozioni dolorose è un invito all’azione, a cambiare un comportamento disfunzionale, o a cambiare un’interpretazione non corretta. Quindi non bisogna negare questa emozione ma bisogna agire e quando necessario farsi aiutare da un esperto.

 

Essere genitori sportivi…missione possibile! intervista su La Nazione di giovedì 3 Maggio 2018

Essere genitori sportivi è una missione possibile ma soprattutto doverosa nei confronti dei più piccoli. Episodi come quello di Levane, in cui il padre picchia l’allenatore perchè il figlio non gioca, non devono accadere; per i bambini sono dei veri e propri traumi e un inno alla violenza. La buona notizia però c’è: lavorando con gli adulti, con i genitori e con lo staff tecnico, queste situazioni si possono prevenire.

L’ ansia da gara: alleata o nemica? I PARTE Ansia da prestazione: Conoscerla per comprenderla

Perché si parla di ansia da prestazione nel mondo dello sport?

Sicuramente molti atleti (e non solo) si saranno confrontati con questo tipo di vissuto nel corso della loro esperienza. Quando si parla di sport, si fa riferimento a una forma di attività fisica che ha diversi obiettivi, tra cui il conseguimento di risultati nel corso di competizioni a tutti i livelli.

La gara rappresenta per un atleta un “esame” che mette in discussione i suoi investimenti fisici e psicologici; alla luce di ciò, egli può avere una risposta d’ansia normale o patologica alla gara. E qui forse qualcuno potrebbe rimanere sorpreso e domandarsi: “Esiste una risposta di ansia normale?” La risposta è affermativa e vediamo perché. Come accennavo prima, l’ansia è un’emozione di cui tutti abbiamo fatto esperienza almeno una volta nella vita. Comunemente pensiamo all’ansia come un ad un fenomeno negativo: questo non è sempre vero, dal momento che l’ansia rappresenta uno “stato di attivazione  fisiologico e comportamentale” (arousal) utile ai fini della sopravvivenza della specie. E’ la nostra mente che fa tutto questo al fine di proteggerci da un’eventuale situazione di pericolo, di stress, qual è appunto la gara.

Quando l’atleta deve compiere una prestazione, il suo organismo deve  infatti attivare una serie di processi fisici e psicologici che gli permettono il raggiungimento del risultato ottimale. Per raggiungere ma soprattutto per mantenere l’ attivazione ottimale, l’atleta ha bisogno di un giusto livello di ansia, una risposta d’ ansia che definiremo “normale”.

Quando invece il livello di ansia aumenta, al punto di essere esagerato rispetto alla prestazione che dobbiamo svolgere, non riusciremo più ad ottenere dei buoni risultati. Questa risposta è di tipo “patologico”, non funzionale alla competizione che viene disputata.

Questa condizione di ansia esagerata, può verificarsi in una singola gara e rimanere dunque un episodio isolato, oppure può succedere che venga esperita con regolarità; in quest’ultima situazione, l’atleta si trova a vivere in modo preoccupato e allarmato tutte le competizioni che dovrà disputare.

Come si manifesta l’ansia da prestazione “patologica”? Quali sono i segnali che il nostro corpo manda quando vive questo impasse? Ma soprattutto come si gestisce?

Ne parleremo nel prossimo articolo.  Buona lettura!

Famiglie … in campo! Riflessioni con un gruppo di genitori della scuola calcio sul ruolo che essi hanno nella crescita sportiva dei propri figli

Quando parliamo di bambini e sport, non possiamo fare a meno di pensare ai genitori e al loro prezioso contributo nella crescita sportiva dei figli. Di fatto, quali sono i comportamenti e gli atteggiamenti più funzionali per lo sviluppo dei giovani sportivi?

Vista la mia collaborazione nel settore giovanile di alcune società calcistiche, ho pensato di chiederlo direttamente ai genitori preparando per loro un’attività ad hoc. In forma anonima, mediante l’uso di bigliettini di colore diverso, ho chiesto ai partecipanti di indicare due tipologie di comportamenti: da una parte quelli che ritengono utili al fine di promuovere e sostenere il benessere sportivo dei propri figli mentre dall’ altra quelli che ne rappresentano un ostacolo. Quasi tutti i genitori presenti hanno riportato tra le condotte più funzionali la seguente: “Mantenere un dialogo aperto con il mister”. Genitori e allenatori sono mossi da uno stesso fine che è quello di favorire la crescita sportiva dei giovani allievi in un ambiente sereno e divertente. Troppo spesso però accade che questo obiettivo non venga condiviso, creando così confusione di ruoli e difficoltà comunicative tra gli adulti. Parlando con i genitori viene fuori che il mister non fa bene il suo lavoro perché la squadra non vince tutte le partite; confrontandomi con allenatori e dirigenti emerge la difficoltà nel gestire alcuni genitori che vogliono sostituirsi all’ allenatore. E in una tale situazione spesso vengo chiamata io, in qualità di psicologa, proprio per cercare di favorire una migliore comunicazione tra le parti. Quando si parla di settore giovanile l’obiettivo della società sportiva non è quello di fabbricare un campione ma quello di far si che i giovani atleti possano divertirsi in un ambiente sano. Il mister si fa dunque portavoce di questo intento, avendo come priorità quella di proporre attività in forma ludica finalizzate a promuovere il divertimento e la partecipazione attiva di tutti i bambini. L’allenatore diventa nel mondo sportivo il riferimento dei più piccoli ma se i genitori non ne riconoscono il ruolo, perché non hanno chiaro l’obiettivo guida del suo operato, perché dovrebbero farlo i loro figli? E’ importante sin da subito condividere con i genitori gli obiettivi educativi che la società individua per i più piccoli e garantire loro uno spazio per il dialogo e il confronto.

Per quel che riguarda invece i comportamenti che influenzano negativamente la crescita sportiva dei figli, la maggioranza dei presenti ha segnalato “pretendere tanto quando sono in campo”. Che cosa si nasconde dietro un tale atteggiamento? Molto spesso troviamo la proiezione da parte del genitore dei propri vissuti sportivi, di aspettative personali che in passato non sono state soddisfatte e che oggi chiedono un riscatto. Le conseguenze sui più piccoli si osservano sia a livello della pratica sportiva, partecipando per far piacere al genitore, ma anche a livello psicologico, sull’autostima e sul senso di autoefficacia.

Non tutti i bambini che fanno sport diventeranno dei  campioni ma tutti possono trarre beneficio dall’ esperienza sportiva sia a livello fisico ma anche a livello psicologico e sociale. Lo sport è una palestra di vita per bambini e adolescenti: questa deve essere la prerogativa di tutti, genitori e rappresentanti del mondo sportivo.

 

Lo psicologo nelle società sportive: una risorsa per tutti.

 

 

Il mestiere di psicologo resta ad oggi una professione segnata da stereotipi e tabù.  Se poi andiamo a parlare del ruolo dello psicologo nel mondo sportivo, allora sì che troviamo resistenze e perplessità, dato che, nella mente delle maggior parte delle persone, lo sport è associato al benessere.

Allora, che cosa fa uno strizza cervelli, colui che risolve le difficoltà e i problemi psicologici della gente, in ambito sportivo? In questo contesto, il contributo dello psicologo non è teso a “curare”… anzi! Il suo ruolo è principalmente quello di prevenire tutte quelle situazioni che potrebbero inficiare il benessere degli atleti e dunque, più in generale, quello di promuovere lo sviluppo psicologico e relazionale degli sportivi. Leggendo questa descrizione molti di voi scuoteranno la testa in segno di accordo. Già i latini sostenevano l’importanza del binomio mente-corpo, “Mens sana in corpore sano”. Oggi abbiamo delle evidenze scientifiche che ci confermano il ruolo fondamentale della componente psicologica sulla performance fisica; sono soprattutto l’ansia e lo stress, le emozioni vissute dagli atleti che, se non adeguatamente gestite, potrebbero diventare dei potenti ostacoli alla prestazione. Nonostante queste considerazioni positive, il lavoro dello psicologo dello sport rimane poco sviluppato. I dati nazionali ci confermano che in Italia tutti gli atleti e le squadre, ad ogni livello, hanno un preparatore atletico di riferimento, ma pochi hanno un preparatore mentale. Non solo. Molto spesso sono gli stessi sportivi, per lo più di alto livello, che individualmente ricorrono ad uno specialista -non sempre formato nell’ambito- per la gestione di tutta una serie di emozioni nate e vissute in campo.

Quando si parla di società sportive non è solo l’atleta il protagonista principale dell’intervento psicologico: il mondo dello sport è un sistema complesso. Solitamente si inizia a praticare un’attività negli anni dell’infanzia, fase in cui la famiglia è di grande importanza; per questo motivo, con soggetti in età evolutiva il lavoro dello psicologo dovrebbe considerare e coinvolgere le famiglie degli atleti e lavorare sulle relazioni che intercorrono tra queste e l’allenatore. Per usare un termine propriamente sportivo, la mission di uno psicologo dello sport sarà quella di fare squadra, lavorando a fianco dell’atleta ma anche a fianco della squadra, delle famiglie, degli allenatori e dei preparatori atletici; ognuno con il suo ruolo ma con un unico obiettivo: promuovere la crescita sportiva dei più piccoli in un contesto sano.

E’ primavera, svegliatevi famiglie! I benefici dello sport all’aria aperta per genitori e figli

La primavera porta con sé il desiderio di trascorrere lunghe giornate all’aria aperta, approfittando delle temperature ancora non troppo calde e dunque ideali per fare movimento.

Al parco, in giardino, al mare e in montagna: ogni luogo offre la possibilità di praticare sport semplici e adatti a tutti; infatti, si tratta di attività per le quali non occorre una particolare preparazione fisica e proprio questo ideali per il nucleo familiare al completo.

Numerosi sono gli sport che si possono praticare insieme ai figli all’aria aperta: camminare, fare trekking, andare in bicicletta, pattinare, nuotare, ecc … Indipendentemente dall’attività che si decide di fare, quali sono i benefici per la famiglia?

Scegliere di praticare uno sport all’aria aperta con i propri cari rappresenta un’ottima occasione per trascorrere il tempo insieme in maniera sana e divertente. I ritmi frenetici di vita a cui spesso sono sottoposte le nostre famiglie impediscono ai suoi componenti di trovare un tempo e uno spazio per uno scambio e un confronto, aspetti –questi- di vitale importanza per il benessere di tutti. Il tempo da passare insieme in famiglia è fondamentale: creare un appuntamento fisso per il fine settimana rafforza i legami, rende più uniti e al tempo stesso serve come valvola di sfogo, soprattutto per i più piccoli di casa.

Inoltre, quando in settimana viene organizzato l’appuntamento sportivo per il weekend, lasciate che i vostri figli vi aiutino nella pianificazione, condividendo con loro idee e proposte.

Una raccomandazione: quando si parla di bambini non dimentichiamoci che la componente ludica è essenziale e insostituibile; attraverso il gioco, il piccolo inizia a comprendere il funzionamento degli oggetti che lo circondano e ad interagire con il mondo. Grazie a questa esperienza “sul campo” potrebbe nascere nei nostri figli l’interesse per una qualche disciplina sportiva.

In secondo luogo, impegnarsi in un’attività sportiva con la famiglia rappresenta un valido antidoto verso cellulari, tablet e social network. Questo aspetto è importante sia quando si parla di bambini, ma anche e soprattutto di adolescenti. In queste occasioni, ricordiamoci che noi genitori siamo dei modelli per i nostri figli: se desideriamo che quest’ultimi non passino tutto il tempo a spippolare sul cellulare, dobbiamo essere noi, in primis, a dare il buon esempio, astenendoci da un uso eccessivo del telefonino. Abbiamo una grande responsabilità in quanto adulti, dobbiamo esserne consapevoli: solo così possiamo promuovere e sostenere una pratica sportiva capace di veicolare esperienze e contenuti educativi. Infatti, la potenzialità formativa dello sport nella crescita di bambini e ragazzi altro non è che il frutto dei valori, delle motivazioni, delle aspettative, degli obiettivi di noi adulti.

Allora, cosa aspettate? Le lunghe giornate primaverili vi aspettano!

 

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fonire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o clicchi su "Accetta" permetti al loro utilizzo.

Chiudi