“AIUTO, NOSTRO FIGLIO HA L’ANSIA!”Perché viene l’ansia, come prevenirla e come comportarsi quando arriva?

Dietro sintomi ansiosi ci sono i vari stress ai quali sono sottoposti i bambini e i ragazzi. Anche lo sport, nonostante gli innumerevoli benefici, può provocare malesseri e tensioni. L’ansia è forse la problematica più comune vissuta dai giovani atleti.

Perché viene l’ansia, come prevenirla e come comportarsi quando arriva?

Punto di partenza fondamentale è quello di imparare a leggere l’ansia come un messaggio: un figlio sta comunicando con il corpo qualcosa che a parole non riesce a dire ed anche se soffre per questo, i genitori non devono assolutamente farsi prendere … dall’ ansia!

Detto questo, la domanda successiva che spesso mi viene posta dai genitori è la seguente: “Sì va bene, ma come ci dobbiamo comportare?Non esiste un approccio giusto ed efficace per tutti, perché molto dipende dalla situazione individuale che ha originato l’ansia: l’ideale sarebbe affidarsi ad un esperto.

Comunque sia, i genitori devono stare attenti ad alcuni COMPORTAMENTI ASSOLUTAMENTE DA EVITARE, come ad esempio:

  • Non banalizzare: usare frasi come “Dai non è niente!” oppure Non ci pensare, passerà!” hanno l’effetto di far sentire un figlio incompreso, non capito.

Chi soffre di ansia sta male veramente: la sofferenza non deve essere minimizzata.

  • Non incitare: altro errore comune è quello di esortare i figli a farsi coraggio, a darsi una mossa, spesso ricordando loro che “L’altra volta è andata bene, perché stavolta dovrebbe andare male?. Se ci riuscisse, lo farebbe già di suo!

Alcuni consigli pratici:

Come dicevano all’ inizio, i genitori devono assolutamente stare attenti a non farsi prendere dal panico, dalla fretta di far sparire l’ansia del figlio il prima possibile. Se l’ansia si è presentata, il passo successivo è individuare il messaggio che essa porta: quali sono i pensieri, gli stati d’animo le emozioni sottostanti? E contemporaneamente, invitare il bambino o il ragazzo a parlarne, a trovare le parole per esprimere quello che si porta dentro. Così facendo, non ci sarà più bisogno di far “parlare” il corpo con le varie manifestazioni ansiose. Molti genitori spesso mi obiettano che i loro figli si chiudono, che non ne vogliono parlare, ritenendo dunque inutile il mio invito. È vero, può succedere soprattutto se i figli sono adolescenti ma per quest’ ultimi sapere che i genitori ci sono e che sono disponibili ad aiutarli è comunque fondamentale, già di per sé terapeutico. Sicuramente vedere un figlio che soffre, senza poter far niente è frustrante e grande è la tentazione di intervenire; invece, sempre con gli adolescenti, il comportamento più utile è quello di esserci ma di farsi un po’ da parte, mandando così al ragazzo un messaggio di fiducia: anche da solo può provare a risolvere i suoi problemi.

Infine, è importante accettare un figlio per quello che è; a lui serve crescere senza che nessuno lo giudichi, gli faccia pressioni, dal momento che se sta male è proprio perché intorno a lui si sono create troppe aspettative.

 

Se non siete soddisfatti e volete maggiori informazioni scrivetemi a info@eleonoraceccarellipsicologa.it

Io sarò felice di accogliere e rispondere  alle vostre domande e alle vostre perplessità.

Figli e insuccessi sportivi: no alla sindrome del campione

Quando si verifica un momento critico per i figli, quale appunto una gara persa, mi capita spesso di essere contatta dai genitori in preda al panico: “Aiuto dottoressa nostro figlio ha perso una partita, lo scorso anno ha sempre vinto”.  Intanto è importante sottolineare che una gara persa ci può stare nella vita di uno sportivo, anzi … ce ne saranno sicuramente altre. I genitori vorrebbero sempre il meglio per i propri figli: ma siamo sicuri che questo “meglio” corrisponda sempre ad una vittoria? In questi casi, il rischio è quello di passare ai figli, anche inconsapevolmente,  un messaggio di questo tipo: si è importanti solo se si vince.

E’ fondamentale educare bambini e adolescenti ad affrontare anche la sconfitta, insegnando loro che ciò che conta è arrivare in fondo, divertirsi, migliorarsi e accettare che qualcun altro possa fare meglio di noi.

Concretamente, cosa possono fare i genitori per aiutare i figli a fronteggiare una sconfitta?

In primo luogo è importante valorizzare gli aspetti positivi di un fallimento. Ad esempio, se si tratta di un gioco di squadra sottolineare ai bambini quanto il loro contributo in campo è stato utile e perché, oppure valorizzarli rispetto all’impegno e al fair play, questo vale anche in uno sport individuale.

Affinché un insuccesso possa essere educativo, fondamentale è anche il contributo dell’allenatore e della società. Il tecnico deve assolutamente sostenere il lavoro fatto dalle famiglie e far partecipare i giovani atleti ad attività e a competizioni sportive rispondenti alle loro abilità e competenze.

In secondo luogo, soprattutto se si tratta di un figlio adolescente, è importante lasciare un tempo per metabolizzare la sconfitta e solo successivamente provare a chiedere informazioni in merito, sintonizzandosi con i suoi vissuti emotivi: “Comprendiamo la tua delusione …” oppure “Lo capiamo, ci sei rimasto/a male…”. Lasciando sempre aperta la possibilità di poterne parlare insieme se e quando vorrà. Rispetto a quest’ultimo punto, spesso gli adolescenti preferiscono restare reticenti con i genitori e aprirsi con l’allenatore. Comunque sia, per loro saper di poter contare sul genitore è lo stesso importante e … spesso terapeutico.

Bisogna imparare sin da piccoli a saper perdere e questo apprendimento dipende in larga misura dal comportamento dei genitori.

Per i figli è importante sentirsi amati per quello che sono, rispetto ai loro punti di forza ma anche rispetto ai loro limiti.

Bambini e adolescenti che si sentono amati in modo incondizionato non avranno il timore di mettersi in gioco e magari di sbagliare mossi dalla consapevolezza che i genitori sono pronti a sostenerli anche se non sono bravi in tutto.

Parola d’ordine RESILIENZA: anche le sconfitte possono rappresentare una vittoria

In psicologia, la resilienza è la capacità di far fronte in maniera positiva alle sfide che la vita pone.

Persone resilienti sono coloro che immerse in situazioni sfavorevoli riescono a fronteggiare efficacemente le difficoltà nonostante tutto e contro ogni previsione.

Anche in ambito sportivo si presentano situazioni difficili da gestire quali le sconfitte oppure gli infortuni.

Quali sono le caratteristiche che fanno di uno sportivo una persona resiliente? Non stiamo parlando di super poteri ma di aspetti di personalità, di capacità e di sostegni da conoscere e da saper valorizzare. La resilienza propone di non ridurre mai una persona alle sue carenze ma di incrementare le sue potenzialità.

Nello sport le sconfitte vanno messe in conto e dunque atleta e allenatore devono imparare a gestirle in maniera costruttiva: gli insuccessi rappresentano un’occasione per fare una valutazione delle proprie risorse, dei punti di forza e contemporaneamente delle criticità. Atleta e tecnico dovrebbero essere in grado di formulare (e condividere) obiettivi che siano adeguati: difficili ma raggiungibili. Problemi o intoppi nel raggiungimento degli obiettivi prefissati possono indurre l’atleta a dubitare delle proprie capacità e dunque a vivere la sconfitta come un fallimento personale. E se questo avviene ad un giovane atleta, per esempio ad un adolescente in cerca della propria identità, il rischio è che possa voler abbandonare lo sport. La vittoria è un importante obiettivo ma non è l’unico ma soprattutto la sconfitta nella competizione non è un fallimento personale o una minaccia al proprio valore come persona.

Anche i genitori hanno un loro importante ruolo: mamma e babbo vorrebbero vedere sempre i propri figli raggiungere il successo. In questi casi è opportuno ricordare che vittoria e successo non sono sinonimi: anche una sconfitta può coincidere con un miglioramento di prestazione o con il raggiungimento di un obiettivo stabilito.

Quando la prestazione viene percepita come una sconfitta personale sicuramente una potente influenza viene effettuata anche dalla motivazione. Se un atleta è fortemente motivato nel voler praticare la sua disciplina che comporta impegno, lavoro, sacrificio, rinunce, affronterà le sconfitte a testa alta, complimentandosi con se stesso per quello che di buono che è riuscito a fare e con l’avversario per la bravura dimostrata (prima o poi uno più forte lo si trova).

L’ allenamento psicologico, mental training, lavora specificatamente sugli aspetti descritti, ovvero sulla formulazione degli obiettivi e sulla motivazione, avvalendosi di un insieme di strategie di potenziamento delle abilità mentali, importanti al pari di quelle fisiche, tecniche e tattiche.

L’ apprendimento e l’applicazione di queste tecniche di gestione mentale è INDISPENSABILE negli atleti professionisti ma possono essere utilizzate con efficacia anche da atleti amatori che non si accontentano di prestazioni mediocri ma desiderano accedere al massimo delle loro potenzialità.

NATALE, VACANZE E SPORT: ESSERE GENITORI DI ATLETI SOTTO LE FESTE

Lo sport non si ferma mai. Anzi, molto spesso è proprio nei periodi di vacanza che gli allenamenti si fanno più intensi. Sicuramente una famiglia che ha un figlio o una figlia (o più figli) che fanno agonismo deve necessariamente contemplare questa dimensione prima di fissare una gita o altro. Se alla trasferta fuori regione con la squadra si sovrappone la vacanza con la famiglia, per molti giovani sportivi può essere davvero una tragedia: infatti, rinunciare all’ appuntamento che vede partecipare tutti i componenti del gruppo per loro è come ammettere di non voler far parte della squadra, di non tenere ai compagni. E sappiamo bene quanto è importante a quell’ età appartenere ad un gruppo di pari. Questo per dire che una famiglia non deve rinunciare ai propri progetti, semmai fare una scelta che faccia contenti tutti, grandi e piccoli di casa. Importante sarebbe parlare per tempo con l’allenatore se in programma c’è una vacanza da fare in modo da non creare spiacevoli sovrapposizioni oppure approfittare della trasferta sportiva del figlio per spostarsi tutti.

Per un giovane atleta che fa sport e lo fa con passione, la possibilità di fermarsi, di riposarsi spesso non viene nemmeno contemplata. E’ più facile che siano i genitori soprattutto quando si parla di bambini e bambine dagli otto anni in su oppure di ragazzi adolescenti a manifestare il desiderio di uno stop. E qui la domanda nasce spontanea : “Chi lo fa sport?” siamo sicuri che l’adulto in questione non si preoccupi più del dovuto, mosso dal fatto che il figlio non lamentandosi mai del carico di allenamento, sicuramente non dica il vero? Una considerazione legittima da parte di un genitore ma se rispetto all’ attività fisica il figlio non manifesta alcun disagio perché arrecarglielo? Sicuramente un po’ di riposo serve, le feste rispondono proprio a questo bisogno anche se negli altri giorni, essendo il campionato in corso e la stagione delle competizioni alle porte, fermarsi a lungo non sarebbe produttivo, né sul piano fisico né a livello mentale. E rispetto proprio alla componente psicologica, gli allenamenti nel periodo delle festività hanno tanti benefici. Molto spesso le società realizzano un orario ad hoc, in modo che i più piccoli possano dedicarsi allo sport ma anche ad altro, come allo studio o alla compagnia degli amici. Sicuramente per un bambino ma ancora di più per un adolescente che fa un bel po’ di sacrifici per conciliare scuola, sport e tempo libero questa è un’attenzione, una riorganizzazione estremamente importante. Non solo, per un bambino o un ragazzo il fatto di poter andare agli allenamenti libero dai soliti impegni e vissuti scolastici, che incidono non poco sulla preparazione sportiva, rappresenta davvero un valido alleato della motivazione e del clima di allenamento.

E tornando ancora al quesito di partenza ”Chi fa sport?” Siamo sicuri che il piccolo atleta in questione sia realmente stanco o forse è il genitore ad esserlo? Certamente gli impegni sportivi quotidiani di un figlio o di più figli si ripercuotono sull’ organizzazione familiare. I genitori non si impegnano solo su un piano economico per lo sport dei figli, molto spesso sacrificano il proprio tempo in favore dei più piccoli. È del tutto normale per un genitore sentirsi affannato, stanco considerando tutto; non è detto però che lo siano i più piccoli. Quindi, sotto le feste, per un genitore forse sarebbe più utile riappropriarsi di spazi e di momenti per se stesso,  anziché pretendere più tempo libero per i figli. Provare per credere!

EMOZIONI IN CAMPO: riconoscerle per imparare a gestirle.

La maggior parte delle volte che concludo una riunione con i tecnici di una certa società sportiva o esco da un colloquio di consulenza con i genitori di giovani atleti, resto colpita dal fatto che le loro preoccupazioni riguardano principalmente le emozioni vissute dai ragazzi.

Come dargli torto, visto che le emozioni fanno parte di tutti gli eventi della nostra vita, inclusi lo sport e l’esercizio fisico.

Nello specifico c’è chi vorrebbe aiutare le proprie atlete a non avere paura delle avversarie; chi vorrebbe guarire il proprio figlio dall’ansia pre-gara; chi desidererebbe incrementare la motivazione dei più giovani, soprattutto degli adolescenti e c’è chi gradirebbe una ricetta magica per gestire la delusione e la rabbia conseguenti ad una partita andata male.

Insomma, le richieste sono tante, diverse tra loro, ma forse unite da una difficoltà comune: ovvero la percezione che le emozioni spesso sfuggano al nostro controllo. E se parliamo di bambini e ragazzi, questo vissuto si fa ancora più forte visto che noi adulti abbiamo la responsabilità del loro benessere psicologico. Ecco allora perché, tra le tante richieste, troviamo quella di chi vorrebbe addirittura far scomparire certi sentimenti dall’esperienza emotiva dei più giovani-

Ma cosa sono le emozioni? E perché sembrano condizionare così tanto alcuni aspetti delle vite dei ragazzi, degli sportivi e in generale di tutti noi?

L’etimologia della parola emozione deriva dal latino emovère che si traduce “mettere in moto”, “portare fuori”. Infatti le emozioni altro non sono che una risposta ad un determinato stimolo, interno o esterno, che comporta l’attivazione di tutto l’organismo. Ad esempio, quando siamo presi da un’emozione come la paura, il battito del cuore accelera, la sudorazione aumenta, muscoli possono contrarsi di colpo (o al contrario rilassarsi), etc

Tutte queste reazioni psicofisiologiche, conseguenti a qualcosa che accade intorno a noi non possono essere assolutamente cancellate con un colpo di bacchetta magica.

La repressione delle emozioni può generare alla lunga uno stato di malessere mentale, e nei peggiori dei casi allo sviluppo di una vera e propria patologia; per questo motivo, l’inibizione delle emozioni non può certo essere l’obiettivo di chi lavora per il benessere e la crescita delle persone, soprattutto di chi si occupa di bambini e ragazzi.

Quindi, partendo dal presupposto che è assolutamente impossibile bloccare o eliminare le emozioni, come possiamo aiutare gli atleti a gestire i propri vissuti emotivi? In primo luogo è fondamentale aiutare gli sportivi a riconoscere le emozioni vissute, a dare loro un nome; ciò, vale anche per le emozioni negative. È inoltre importante invitare gli atleti a riflettere sul significato che le emozioni assumono nelle diverse situazioni specifiche: per esempio l’ansia spesso indica che il corpo si sta preparando nei confronti di una minaccia mentre la rabbia può rappresentare una reazione ad un vissuto di frustrazione o di delusione. Questo lavoro di “alfabetizzazione emotiva” aiuta i più piccoli a comprendere cosa siano le emozioni, a cosa servono e come si esprimono; in pratica, imparano a capire sé stessi e gli altri a livello emotivo.

L’alfabetizzazione emotiva è soprattutto una sfida e come tale una opportunità. Un ponte che facilita la conoscenza di sé e, in ultima analisi, le relazioni con gli altri. Una dimensione che vale senz’altro la pena di approfondire. Provare per credere!

Per informazione e approfondimenti: Dott.ssa Ceccarelli 3382227321

Essere genitori sportivi: missione possibile! Il ruolo della famiglia nello sport

Quando parliamo di bambini e sport, non possiamo fare a meno di pensare ai genitori e al loro prezioso contributo nella crescita sportiva dei figli. E’ all’ interno del sistema familiare che i più piccoli imparano a fronteggiare le diverse sfide che la vita propone loro: i genitori sono per i figli una guida, un riferimento imprescindibile per uno sviluppo sano. Sentirsi sostenuti e incoraggiati dalla propria famiglia promuove nei bambini un atteggiamento di fiducia che permette loro di buttarsi e sperimentarsi nelle varie situazioni quotidiane. Anche cimentarsi in una disciplina sportiva è un’esperienza che dipende dalla propria famiglia: è per mezzo di quest’ultima che i più piccoli arrivano a fare sport ma soprattutto che continuano a praticarlo negli anni. E visto che lo sport, dopo la scuola, è il luogo in cui i più giovani passano gran parte del loro tempo, come possono i genitori motivare e supportare i propri figli affinché l’esperienza sportiva possa essere positiva e formativa? Genitori sportivi non si nasce ma lo si può diventare. In primo luogo, è fondamentale che il genitore svolga un ruolo di sostegno senza però sovrapporsi o peggio ancora sostituirsi alla figura dell’allenatore poiché quest’ultimo, nel contesto sportivo, rappresenta un modello efficace. Se i genitori in primis non ne riconoscono il ruolo, come possiamo pensare che lo facciano i figli? I bambini imparano dal comportamento di mamma e babbo: se quest’ultimi sono capaci di affidarsi all’allenatore, riconoscendone il valore e rispettandone le scelte sportive, sicuramente anche i figli riusciranno a fare altrettanto: la fiducia genera fiducia. Non solo. Il fatto di “delegare” o meglio condividere con un altro adulto significativo, qual è l’allenatore, l’educazione dei propri piccoli, accresce in quest’ultimi la percezione di autoefficacia e sostiene lo sviluppo dell’autostima, poiché i bambini apprendono che possono farcela anche senza l’aiuto diretto dei genitori, seppur consapevoli di poter contare sul lor appoggio ogni volta che ce ne sia bisogno. E sempre partendo dal presupposto che i giovanissimi imparano per imitazione e quindi dal comportamento degli adulti, non bisogna assolutamente dimenticarsi di offrire loro il buon esempio: anche se durante l’allenamento o la partita i bambini sono in carico all’ allenatore, i genitori restano comunque le loro guide principali. Comportarsi in maniera violenta fuori dal campo, autorizza e legittima i più piccoli a fare altrettanto. Purtroppo sono sempre più numerosi gli articoli di cronaca in cui padri di famiglia – qualche volta anche madri- sbraitano con toni oltraggiosi verso l’arbitro o l’allenatore mettendo in discussione il loro operato, o peggio ancora offendono verbalmente i giocatori della squadra avversaria che potrebbero essere i loro figli. La domanda sorge spontanea: cosa muove tali comportamenti? E’ solo la delega di responsabilità a fare da detonatore? Probabilmente no. Troppo spesso capita di proiettare sui figli gli obiettivi che non sono stati raggiunti, nel tentativo di una rivalsa personale, caricando così i più piccoli di pressioni e aspettative che li tengono lontani dal divertimento e da una crescita sana. Infatti, questa situazione espone i bambini ad un forte stress che può condurli ad un abbandono precoce del mondo sportivo, prendendone le distanze anche per molti anni. Quando parliamo di piccoli atleti l’obiettivo primario deve essere quello di farli divertire in un ambiente sereno e sano. Per ottenere questo, ancora una volta, fondamentali sono gli adulti significativi che circondano il giovane sportivo. Se questi da una parte suggeriscono di divertirsi, ma poi si arrabbiano quando il risultato atteso non viene raggiunto, allora trasmettono valori contraddittori e negativi.
Naturalmente desiderare che un figlio arrivi ad ottenere ottimi risultati è normale, ma questo non è sempre sinonimo di vittoria: anche una sconfitta può essere un risultato positivo se comunque un figlio si è impegnato a dare il massimo e si è divertito. Sono gli adulti che devono guidare i più giovani verso una crescita sana. Eloquenti in questo caso sono le parole di Madre Teresa di Calcutta: “La parola convince, ma l’esempio trascina. Non ti preoccupare se i tuoi figli non ti ascoltano, ti osservano tutto il giorno”.

P….come positivo! L’importanza del pensiero positivo nello sport

Nello sport si alternano momenti di vittoria e di successo a momenti di sconfitta e di difficoltà. Fondamentale è averne consapevolezza in modo da non perdere la stima e la fiducia nelle proprie capacità soprattutto di fronte alle sfide e alle situazioni difficili che la vita propone.

In psicologia dello sport esiste una tecnica, il self-talk, ovvero il dialogo interno che si focalizza su pensieri positivi (incoraggiamenti, brevi istruzioni, parole chiave e frasi stimolanti), da ripetere a se stessi, mentalmente o ad alta voce, al fine di sostituire eventuali pensieri negativi che potrebbero compromettere la performance.

Se uno sportivo vuole ottenere dei buoni risultati deve avere un modo di pensare positivo e dal momento che il self talk è il modo in cui un atleta parla a se stesso, esso è in grado di dirigere le azioni dello sportivo; alla luce di ciò, punto di partenza imprescindibile è individuare obiettivi che siano raggiungibili per l’atleta in modo da accrescerne l’ autostima.

L’autostima è frutto del confronto che lo sportivo fa tra gli obiettivi e le sue abilità: per poter raggiungere un obiettivo bisogna credere profondamente di avere le capacità per riuscirci.  In questo modo si crea un circolo virtuoso per cui l’atleta che ha fiducia nelle proprie abilità, tende a perseverare     nell’ impegno anche quando le cose non stanno andando secondo i progetti, a mostrare entusiasmo e ad assumersi la sua parte di responsabilità se il successo viene a mancare.

Facciamo un esempio.

Un atleta che durante una gara sviluppa pensieri negativi del tipo “sono stanco non arriverò alla fine della gara” oppure  “Non ce la farò mai” rischia di alimentare la così detta “profezia che si autoavvera”. Cioè si metterà mentalmente e fisicamente nelle condizioni di perdere il ritmo e le strategie adeguate a ottenere il massimo da quella competizione. Viceversa un atleta abituato a motivarsi attraverso un dialogo interno positivo del tipo “l’avversario è forte ma ho le risorse per poterlo fronteggiare”, si metterà nelle condizioni psicologiche di gestire la gara nel migliore dei modi possibili.

Praticamente tutto è migliorabile per l’atleta che crede in se stesso. Quest’ultimo vive i momenti di crisi come un’ opportunità: le difficoltà non sono viste come il risultato di un limite personale, ma come una possibilità per individuare le proprie potenzialità e le aree di miglioramento. Al contrario, l’atleta che resta impantanato in uno stato di negatività assoluto, rimane cieco nei confronti dei propri punti di forza, utilizzando così le proprie risorse in maniera inadeguata.

La mente può essere allenata a pensare positivamente e ad avere fiducia nelle proprie capacità.

Ascoltare il proprio dialogo interno vuol dire avere consapevolezza di sé, dei pensieri e del modo in cui essi influenzano le nostre azioni e le nostre scelte. Ogni resistenza, ogni blocco che impediscono il raggiungimento degli obiettivi dell’atleta e/o della squadra va analizzato, compreso e poi trasformato.

La pratica costante di questa tecnica, dal momento che accresce la consapevolezza dello sportivo, permette a quest’ultimo di abbandonare gli automatismi negativi che si innescano durante le gare (e spesso anche in allenamento) e di modificare in modo costruttivo le strategie attuate in occasione di una competizione, rendendole efficaci al fine del risultato finale.

 

 

“Chi ben comincia è già a metà dell’opera” La tecnica del goal setting e le sue potenzialità in campo sportivo

 

 

Settembre per me è sempre stato il mese dei buoni propositi; l’ estate è al tramonto, le ferie sembrano già un ricordo lontano: avere dei progetti in mente per i freddi mesi a venire è doveroso, anzi fondamentale!

Anche nel mondo sportivo settembre è il mese della “partenza”, periodo in cui si definisce il programma della nuova stagione. Non fa una piega! E allora perché qualche volta accade che pur avendo in mente l’obiettivo o la meta che vorremmo raggiungere, non riusciamo nei nostri intenti? Probabilmente non è così facile come sembra.

La psicologia della sport offre un valido aiuto, proponendo una strategia molto efficace: la tecnica del goal setting o formulazione degli obiettivi.

Io uso moltissimo questo strumento con i miei atleti, soprattutto all’inizio della stagione sportiva.

L’ applicazione della tecnica è facile di per sé e se vogliamo anche veloce (non più di un’ora) tuttavia è necessario un lavoro profondo, di grande consapevolezza da parte dell’atleta che in alcuni casi può necessitare di un sostegno  più prolungato da parte dello psicologo per raggiungere quanto stabilito.

Si tratta di una strategia che può essere usata individualmente o in gruppo e preferibilmente con la partecipazione dell’allenatore.  La condivisione degli obiettivi tra l’atleta e tutte le figure significative che lo circondano è di fondamentale importanza poiché spesso accade che la mancata corrispondenza tra gli obiettivi individuati dall’atleta e quelli dell’ allenatore (talvolta anche tra quelli della società) può inficiare l’esito della prestazione.

Anche se l’esperienza di goal setting di ogni sportivo è soggettiva, è possibile dare una definizione generale delle caratteristiche di questa tecnica. Andiamo a vedere di cosa si tratta.

Intanto, Che cos’è un obiettivo? Possiamo definire un obiettivo “ uno scopo, una meta,un  risultato che ci si propone di ottenere (www.garzantilinguistica.it). Solitamente ciò avviene attraverso il ricorso a strategie e individuando un intervallo temporale entro cui vorremmo che l’obiettivo si realizzi.  Il fattore tempo è importantissimo, ragione per cui occorre individuare e definire obiettivi a breve, medio e lungo termine.

Gli OBIETTIVI A BREVE TERMINE sono quelli che ci prefiggiamo di raggiungere nel giro di pochi mesi, in un tempo molto breve quindi. Sono gli obiettivi su cui focalizziamo la nostra attività all’inizio dell’anno sportivo, permettendoci così una prima valutazione della nostra performance. Si tratta di obiettivi che definiremo di “prestazione o performance” vale a dire quelli che si focalizzano sull’acquisizione o sul perfezionamento di un gesto atletico o di una certa abilità mentale.

GLI OBIETTIVI A MEDIO TERMINE, si riferiscono ai risultati che vorremmo ottenere all’incirca a metà della stagione sportiva (entro 6 mesi). Questi obiettivi mettono a fuoco la direzione verso cui stiamo andando, facendo emergere ciò che serve per andare avanti.

GLI OBIETTIVI A LUNGO TERMINE sono quelli che vorremmo raggiungere attraverso l’intera annata sportiva, offrendoci così una pianificazione generale di quello che sarà il nostro percorso sportivo. Gli obiettivi a lungo termine stimolano in maniera attiva l’atleta, soprattutto se protagonisti sono i più giovani, maggiormente esposti a un’organizzazione serrata dei ritmi di studio (o lavoro) con gli impegni sportivi.

Oltre al fattore tempo, affinché la tecnica del goal setting sia efficace è fondamentale che gli obiettivi:

  • vengano formulati in maniera chiara e precisa e che siano raggiungibili per l’atleta.

Al contrario, obiettivi ambiziosi o mete troppo vaghe possono esporre l’atleta (e il suo staff) a insuccessi e frustrazioni.

  • Siano misurabili: ciò permette di analizzare nei dettagli il risultato ottenuto e di assegnargli un

punteggio (ad esempio su una scala da zero a dieci) al fine di comprendere cosa ha funzionato e cosa, invece, sarà necessario andare a migliorare.

  • Siano espressi in positivo: le ricerche hanno evidenziato che, in alcuni casi, sia inefficace concentrarsi su obiettivi caratterizzati da frasi che contengono il “non” (es. non devo fare errori, non devo compiere movimento, non devo essere così rigido). Solitamente così facendo otteniamo l’esatto contrario di quello che vogliamo.
  • Siano flessibili; infatti, potrebbe capitare che un atleta si accorga di non essere in grado di raggiungere l’obiettivo prestabilito ad esempio per l’insorgere di un infortunio. Per non vanificare gli impegni di un’ intera stagione sportiva, la strategia migliore sarà quella di ridefinire gli obiettivi prefissati per poter essere sempre motivati a dare il massimo per il loro conseguimento.

Tutte queste regole oltre a promuovere il raggiungimento degli obiettivi prefissati permettono di tenere alta la motivazione.

E allora se è vero che “CHI BEN COMINCIA È GIÀ A METÀ DELL’OPERA” che cosa aspettate? Sotto con il goal setting! 

 

 

I bambini? Vanno lodati ma con parsimonia

Chi non ha bisogno di riconoscimenti, scagli la prima pietra!

Tutti ne abbiamo bisogno: noi adulti ma anche (e soprattutto!) i bambini. Si tratta di un bisogno fondamentale per la nostra salute fisica e mentale, esattamente come il bisogno di nutrirsi o di dormire.

L’adulto, genitore, allenatore o insegnante, che attribuisce riconoscimenti positivi potenzia nel bambino  la disponibilità ad ascoltare e ad apprendere. Non solo, comunica fiducia e sicurezza al piccolo rispetto alle sue capacità. Attenzione però: affinché le lodi siano funzionali  allo sviluppo psicologico  di un bambino, devono essere fondate,  riferite cioè ad un fatto reale e concreto. Facciamo un paio di esempi. Esempio uno: “Hai fatto bene a presentare al professore i tuoi dubbi sulla gita. Sei stato davvero sincero e l’insegnante lo ha apprezzato. Esempio due: “Complimenti per la gara che hai disputato, sei stato molto bravo. Era una competizione difficile e ti sei dimostrato determinato fino alla fine nel raggiungimento degli obiettivi che ti eri prefissato. Ti sei impegnato molto quest’anno, organizzandoti diligentemente con la scuola e con gli impegni del tempo libero. Te lo sei meritato”.

In questi casi, il riconoscimento dell’adulto riguarda un’ azione specifica agita dal minore: così facendo il genitore/allenatore sottolinea che quel comportamento è ritenuto positivo e dunque il bambino si sente legittimato e motivato a consolidarlo e a ripeterlo in occasioni successive. Nono solo. Il fatto che sia fatto riferimento all’ impegno impiegato per ottenere il risultato è importante: lavorare duramente per raggiungere un obiettivo è una preziosa spinta motivazionale che va  sicuramente sostenuta e incoraggiata. Spesso il fatto di sforzarsi e di impegnarsi viene vissuto come qualcosa di meno importante dell’essere intelligenti. Ma a scuola,  nello sport e in generale nella vita, ogni traguardo da raggiungere si prefigura come una sfida che richiede impegno; per questo motivo, meglio lodare i bambini per le qualità che possono controllare (come l’impegno appunto), affinché considerino le nuove sfide come opportunità per apprendere ma soprattutto per andare avanti nel percorso di crescita, con la consapevolezza che si possa sempre migliorare.

Espressioni di questo tipo invece: ”Sei eccezionale!”, “Quanto sei intelligente!”, Come sei brava”, “Sei davvero un campione” sono lodi non riconducibili ad un’ azione ben precisa; il rischio è quello  di produrre una generica “sviolinata”  che ha effetti negativi sullo sviluppo della personalità  del minore e  sulla relazione tra adulto e bambino.

Quando noi adulti diciamo qualcosa a un bambino indirettamente diciamo qualcosa su di lui. Ogni messaggio che gli viene inviato quindi gli comunica cosa pensiamo di lui e gradualmente il piccolo si costruisce un’immagine di come lo percepiamo come persona. Per questo motivo, qualsiasi comunicazione ha un impatto non solo sull’interlocutore ma anche sulla relazione che abbiamo con lui. Ogni volta che parliamo con i più piccoli, bambini ma anche adolescenti,  aggiungiamo un altro pezzo al puzzle che stiamo costruendo insieme.

I più piccoli hanno bisogno della nostra approvazione per diventare adulti. Non dobbiamo privarli dei nostri elogi per quello che hanno fatto se lo hanno fatto con passione e impegno. In questo caso la lode rappresenta un incoraggiamento: quando abbiamo lavorato duro e fatto un buon lavoro ci fa piacere che gli altri riconoscano e apprezzino il nostro impegno.

Valorizzare  il risultato o il talento , non accresce l’autostima, tutt’altro;  in queste situazioni è stato osservato che i bambini  hanno difficoltà a tollerare le frustrazioni legate agli insuccessi che nella vita possono  inevitabilmente presentarsi;  inoltre,  manifestano maggiore insicurezza  di fronte alle difficoltà e sono  tendenzialmente  più resistenti a mettersi in gioco per migliorare i propri punti deboli.

Insomma, le lodi servono ma ci vuole misura nel complimentarsi con i propri figli per i piccoli o grandi successi quotidiani.

 

L’agonismo fa male?

“L’agonismo fa male?” Ultimamente, questa domanda mi viene posta da tanti genitori. Dietro questo interrogativo molto spesso riscontro paura ma anche una cattiva informazione; così ho pensato di estendere la riflessione nel tentativo di fare chiarezza ma soprattutto di rispondere ai dubbi e alle perplessità che i genitori (e di riflesso i figli) vivono quando il percorso agonistico viene anche solo immaginato.

Negli ultimi anni l’aspetto agonistico dello sport è diventato sempre più rilevante nelle diverse discipline sportive e proposto sempre più precocemente, coinvolgendo bambini e preadolescenti. La “Carta dei Diritti del Bambino nello Sport” afferma che il bambino ha diritto di divertirsi e a giocare come un bambino. È infatti impossibile pensare un’attività sportiva che prescinda dal gioco. Bisognerebbe anzi parlare sempre di “gioco sportivo” quando si parla dell’infanzia: i bambini lavorano e apprendono divertendosi. Purtroppo indirizzare i più piccoli verso un agonismo precoce fa perdere di vista l’importanza della componente ludica a favore di una specializzazione tecnica che non è per tutti: nella stragrande maggioranza dei casi il risultato che si ottiene è quello di favorire un abbandono precoce. La responsabilità di questo fenomeno è da attribuire sia alle società, il cui prestigio è condizionato dalle vittorie dei propri atleti, sia alle famiglie che hanno sempre maggiori aspettative di affermazione e di fama nei confronti dei figli. Visto in questi termini l’agonismo sembra sinonimo di successo. Proponendo e imponendo ai più giovani modelli irraggiungibili, li si espone a delusioni e umiliazioni, che alimentano insicurezza e scarsa stima di sé e non di rado anche lo sviluppo di disturbi psicologici soprattutto inerenti la sfera ansiosa e a livello psicosomatico. È allora non c’è da meravigliarsi se la risposta da parte dei giovani atleti è quella di lasciare prematuramente lo sport. Non solo, esperienze di questo tipo per molti bambini sono dei veri e propri traumi i cui effetti hanno ripercussioni anche nel loro sviluppo futuro.

Ma siamo sicuri che l’agonismo sia solo questo? Se così fosse, la risposta all’interrogativo posto dai genitori con cui ho parlato non potrebbe essere che affermativa. L’agonismo non è solo vittorie e successo, è un percorso che fa parte del fare sport: si può scegliere di farlo oppure no ma nel momento in cui lo si intraprende bisogna arrivare preparati. Molto spesso le società non danno importanza ad accompagnare e a sostenere le famiglie nel percorso verso l’agonismo; sono loro stesse a proporlo in maniera confusiva e limitante. Per questo sarebbe importante farsi aiutare da uno psicologo che lavora in ambito sportivo attraverso corsi di informazione e formazione.

L’attività agonistica è importante nella crescita di un minore, a patto che sia sostenuta e ben gestita dall’allenatore e dalla società, ma anche dai genitori.

Non bisogna avere fretta di “creare” dei campioni, di mettere i più giovani a competere per affermarsi come i migliori; se il bambino non si diverte in quello che fa, abbandona lo sport. I momenti di confronto sono importanti per la crescita e lo sviluppo della personalità del minore a patto che non siano improntati alla ricerca di un risultato a tutti i costi, quanto piuttosto a permettere di acquisire sicurezza e maggior autostima. Questo perché il bambino piccolo non è ancora in grado di dare il giusto valore alla sconfitta: per il giovane atleta tutto è riconducibile a se stesso e al suo valore personale. Solo quando il bambino sarà capace di associare alla sconfitta un’azione eseguita allora l’agonismo può essere vissuto come nell’adulto. Il vero significato dello sport, soprattutto nei più giovani, deve essere considerato non in funzione della vittoria e di un eventuale record da battere, ma come una condizione formativa in grado di sviluppare al meglio le potenzialità psicofisiche e le relazioni sociali. A questo vanno educati i più piccoli m anche i “più grandi”, allenatori e genitori.

Inevitabilmente l’attività agonistica prevede delle rinunce: invita i più piccoli al massimo impegno, a sviluppare un forte senso del dovere e di responsabilità  e a trascorrere molte ore della giornata ad allenarsi, trascurando attività e interessi normali per la propria età. Questo sacrifico sarà possibile se il piccolo sportivo si allena un in ambiente familiare e accogliente, dove gli adulti di riferimento lo sostengono e lo sanno apprezzare per il suo valore e non in funzione delle vittorie che ottiene. Questo è il fondamento imprescindibile affinché un giovane atleta possa crescere nello sport e con lo sport, trasformando il proprio sacrificio nella spinta motivazionale che lo induce a ricercare il confronto con l’avversario per verificare le proprie capacità e la validità del proprio allenamento.

In questo modo l’agonismo ha realizzato il suo vero obiettivo educativo e formativo.

Buon allenamento a tutti!

 

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fonire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o clicchi su "Accetta" permetti al loro utilizzo.

Chiudi