ESTATE: TEMPO DI ACQUA E DI BAGNI AL MARE. COME AIUTARE I PIÙ PICCOLI AD AVERE UN RAPPORTO SERENO CON L’ACQUA

Per un  neonato l’ambiente acquatico è quanto di più familiare possa trovare: è nel liquido amniotico che ha trascorso nove mesi di vita intrauterina ed è qui che ha sviluppato i suoi sensi e si è esercitato nei primi movimenti. Non c’è da sorprendersi quindi se i bambini appena nati mostrino un’innata affinità con l’acqua.

Compito dei genitori è e sarà quello di aiutarli a mantenere questa confidenza con l’acqua, fin dalle prime esperienze in piscina, al mare ma anche a casa nelle normali pratiche quotidiane come il bagnetto o la doccia.

Se è vero che molti bambini sembrano essere dei “pesciolini” che passerebbero la vita a sguazzare, è tuttavia altrettanto vero che altri già a pochi mesi di età inizino a rifiutare il contatto con l’acqua. Che cosa fare?

Anche in questo caso, dovranno essere gli adulti, per primi, a cambiare qualcosa del loro  comportamento affinché il rapporto con l’acqua possa diventare per i propri figli qualcosa di piacevole.

Se i genitori hanno paura dell’acqua e con il loro comportamento trasferiscono panico ai figli tutte le volte che hanno a che fare con bagni al mare o in piscina, come possiamo pensare che i più piccoli  possano godersi il momento in totale serenità? Rifiutarsi di prendere contatto con l’acqua sembra essere la strada migliore per la sopravvivenza, di tutti!

E poi, se i genitori sono invece dei pesci che vivrebbero sempre in acqua ma i loro figli no, meglio evitare  drammatizzazioni del tipo “Da chi avrà preso ? Non è figlio mio! Non c’è da avere paura dell’acqua, il bagno al mare è bellissimo”. Non dimentichiamo che qualsiasi forzatura eccessiva non può che irrigidire il bambino e allontanarlo ancora di più dall’obiettivo.

Che cosa possono fare i genitori per aiutare i figli che hanno paura dell’acqua?  Oggi ne abbiamo parlato con Martina Zipoli, istruttrice FIN.

“Sicuramente il primo contatto con l’acqua ha luogo con il bagnetto domestico; di fondamentale importanza risulta quindi rendere questo momento piacevole, avvalendosi di giochi e inserendolo nella routine giornaliera.”

Altra cosa importante da fare è la seguente: procedere con gradualità. “Se il bambino si mostra molto spaventato nei confronti dell’acqua, è bene proporre un avvicinamento progressivo e rassicurante. All’inizio invitiamolo a bagnarsi  le mani e i piedi; successivamente sproniamolo a fare giochi che ne incoraggino una certa familiarità come i travasi ad esempio. Al mare tutto questo si traduce nel riempire il secchiello o l’annaffiatoio con l’acqua. In questo modo il bambino comincia a prendere familiarità bagnandosi i piedi e magari in un secondo momento possiamo proporgli di fare anche una breve camminata sul bagnasciuga”.

Prima del bagnetto vero e proprio può esserci uno step intermedio ancora. Molte volte a provocare la sensazione di paura non è solo l’acqua in sé, ma anche il disorientamento creato da un eccessivo spazio intorno, soprattutto al mare, con le onde. “Per questo può essere utile incominciare facendo prendere confidenza al bambino con l’acqua usando una piccola piscina gonfiabile, che può fornirgli l’impressione di tenere le cose “sotto controllo”.

Prima di concludere un ultimo valido consiglio: Mettete da subito, da appena nati, i bambini in piscina. Un corso di acquaticità per piccolissimi non serve per ‘imparare a nuotare’, ma può invece essere utilissimo per acquisire confidenza con l’ambiente liquido in modo da non farsi spaventare in seguito da schizzi, immersioni o ‘bevute’ impreviste. Se questo non è stato fatto e i bambini sono più grandi può essere comunque d’aiuto un corso di nuoto per arrivare preparati alla vacanza al mare”.

Buona estate a tutti!!

ESTATE: TEMPO DI VACANZE MA ANCHE DI IMPORTANTI COMPETIZIONI PER MOLTI GIOVANI SPORTIVI. SOPRAVVIVERE È POSSIBILE, FONDAMENTALI I GENITORI.

Lo sport non si ferma mai, anzi! Sicuramente chi gravita nel mondo sportivo sa bene di cosa parlo: l’estate è per molti atleti, soprattutto di discipline individuali,  il momento in cui vengono disputate le competizioni più importanti. Per molti sportivi gli allenamenti si intensificano visto che la scuola è finita, per altri invece, per coloro che per esempio sono stati rimandati in qualche materia,  gli impegni sportivi devono necessariamente incastrarsi con i corsi di recupero e/o eventuali ripetizioni. Mesi estivi che sembrano roventi non solo per il caldo…. Questo è quello che mi raccontano alcuni genitori. Come dico a quest’ultimi, siamo sicuri che questo punto di vista sia condiviso dai figli? Di solito sento dire da babbo e mamma frasi del tipo: “Con questo caldo come fa”. Oppure “Ma chi glielo fa fare! A quest’ora poteva già essere al mare con i nonni”. Dai ragazzi invece mi sento dire con una certa frequenza qualcosa di diverso: “Senza la scuola mi alleno proprio bene, non mi disturba nemmeno il caldo!” oppure “Lo sport mi aiuta a passare le giornate altrimenti mi annoierei”. Ovviamente ho scelto le affermazioni più caratteristiche perché mi sono di aiuto e spero che lo siano per tutti voi che state leggendo questo articolo. Sicuramente l’afa di quest’ultime settimane ha messo e continua a mettere a dura prova tutti, ma se le gare più importanti sono in questo periodo c’è poco da fare, vanno fatte. Allora fondamentale è trovare un equilibrio che faccia stare bene tutti, grandi e piccoli di casa, ma in special modo i più giovani che continuano a impegnarsi e a credere in quello che fanno malgrado il caldo e la fatica. Come più volte ho detto, anzi scritto, fondamentale è ancora una volta il contributo dei genitori.

Essere genitori è già di per sé un ruolo complesso, esserlo di un figlio che pratica sport a livello agonistico può portare a porsi ulteriori dubbi e a paure relative al proprio comportamento. Ed è proprio da ciò che nasce questo articolo (e più in generale il blog sport e famiglia). Non ho la presunzione di darvi la ricetta magica ma la possibilità di apprendere qualcosa dal vostro comportamento per migliorarvi come genitori.

La motivazione dei figli può risentirne in negativo se in famiglia vengono fuori frasi che in maniera più o meno diretta passano il messaggio: “chi te lo fa fare?!”. La motivazione è il motore dell’attività sportiva e nei più piccoli il suo mantenimento passa dal comportamento e dalle parole degli adulti significativi. Capite bene che mettere in discussione tutto l’impegno di un anno perché fa caldo e magari la stanchezza dei più grandi si fa sentire è molto pericoloso a livello di autostima e fiducia personale. Se un figlio rispetto all’ attività praticata non manifesta alcun disagio, perché arrecarglielo? Perché farlo dubitare di ciò che sta facendo con amore e sacrificio? I ragazzi devono sentire da parte dei propri genitori un appoggio incondizionato, che significa essere supportati e valorizzati per quello che sono ma anche per quello che fanno.

Gli allenamenti nel periodo estivo hanno tanti benefici sul piano psicologico. Solitamente, le società realizzano un orario ad hoc, in modo che i bambini e i ragazzi possano dedicarsi allo sport ma anche ad altro, come allo studio o alla compagnia degli amici. Sicuramente per più piccoli ma ancora di più per un adolescente, che fa un bel po’ di sacrifici per conciliare scuola, sport e tempo libero, questa è un’attenzione estremamente importante. Per molti, il fatto di dedicarsi agli allenamenti liberi dai soliti impegni e vissuti scolastici, rappresenta davvero un valido alleato della motivazione e del clima di allenamento e magari un’occasione per conoscere meglio i propri compagni di squadra.

Sicuramente un po’ di riposo serve, anzi è fondamentale per tutti. L’importante è imparare a programmare le vacanze e/o eventuali weekend lunghi contemplando gli impegni sportivi. Una famiglia non deve rinunciare ai propri progetti, semmai organizzarsi per esempio parlando con la società e/o l’allenatore per tempo oppure approfittando della trasferta sportiva per spostarsi tutti quanti.

In bocca al lupo per le gare e buona estate!

 

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Abbandono Sportivo: la parola d’ordine è prevenzione

La pratica sportiva in Italia sta crescendo: lo rivelano i dati ISTAT più recenti.  Tra i 6 e i 10 anni d’età si raggiunge la percentuale più alta di sportivi in forma continuativa (il 59,7% dei bambini). Nel biennio 2013-2014 la fascia d’età con la più alta percentuale era quella 11-14 anni. Nelle fasce d’età successive, seppure diminuiscono gradualmente le percentuali di praticanti sportivi, nel 2016 si raggiungono i dati migliori degli ultimi anni. Si tratta sicuramente di un importante risultato che testimonia la risonanza che le campagne antiobesità volte a favorire stili di vita corretti portate avanti da istituzioni, pediatri, scuola, con il coinvolgimento dei genitori, stanno dando i loro frutti. Anche se comunque quello che resta da segnalare è che dopo la scuola primaria, i bambini italiani cominciano ad allontanarsi dalla pratica sportiva continuativa e ad accrescere le fila dei sedentari.

Di seguito, vi riporto alcune tra le principali cause dell’ abbandono sportivo giovanile riportate in letteratura:

  • carenza di momenti di gioco e di divertimento
  • impegni scolastici
  • il rapporto con l’allenatore
  • infortuni
  • bassa motivazione
  • pressioni da parte della famiglia
  • difficoltà legate alla socializzazione e alla competizione con i compagni
  • ansia da prestazione
  • scarsi risultati

Come spesso mi capita di dire, di sottolineare e talvolta urlare, la parola d’ordine è: PREVENZIONE.

Non v’è dubbio che le Federazioni Sportive debbano fare la loro parte, facendo attenzione a non esasperare l’attività agonistica in età precoce. Un bambino e una bambina continuano a praticare uno sport se si divertono. Celebri sono a questo proposito le parole di una famosa atleta olimpica, Josefa Idem: “Nello sport il gioco deve essere una costante. Quando questa componente viene a mancare è ora di smettere”. La componente ludica quando ci si rapporta all’ infanzia (e non solo!) è fondamentale.

Inoltre, soprattutto quando si lavora con i bambini , dovrebbe esserci un linguaggio condiviso tra la società e le famiglie: il focus non è il risultato, ma l’importanza dello sport come strumento di sviluppo e crescita, oltre che come fonte di divertimento e gratificazione. L ’importanza di sostenere e incoraggiare i ragazzi, evitando aspettative troppo elevate e pressioni esagerate.

Anche la scuola dovrebbe fare la sua parte, l’educazione motoria sembra essere un optional; invece, sono proprio gli anni della scuola primaria ad essere fondamentali, dovrebbero presentare e far provare ai bambini discipline sportive diverse in modo che ogni bambino/a possa scegliere autonomamente quello sport a lui più congeniale e che gli piace di più. Negli ultimi anni a Firenze e provincia, ma anche nel territorio di Prato questo viene fatto dalle feste dello sport che grazie alla collaborazione delle Associazioni Sportive locali offrono proprio la possibilità di provare i vari sport.

Non solo la scuola primaria, ma anche la scuola secondaria dovrebbe favorire e incentivare la pratica sportiva, anziché considerarla, come spesso purtroppo accade, una perdita di tempo che toglie spazio ad altre attività più importanti.

 

 

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P come….paura di vincere! la vittoria che tutti gli atleti cercano, per molti può essere un’esperienza negativa, addirittura spaventosa

Per parlare del tema in questione, vi riporto le parole di un atleta che seguo: “Perché ultimamente mi succede questa cosa: nelle partite più importanti gioco bene fino quasi alla fine; poi, quando c’è da concludere mi incasino e rovino tutto: mi sale l’ansia, non riesco più ad avere il controllo della situazione e  lascio che l’avversario ne approfitti. Perché ho questa assurda paura? Sembra che abbia paura di vincere… “

Che cosa succede a questo sportivo? E’ lui stesso a etichettare con la giuste parole la sua condizione: ha paura di vincere. E’ proprio così. Questa paura, che in gergo tecnico viene definita come nikefobia, è una fobia vissuta da molti atleti ( e non solo!), una sorta di blocco fisico ed emotivo che influenza negativamente la prestazione.

Che cosa si nasconde dietro alla paura di vincere?

Molto spesso la persona che la vive si convince che il successo, la vittoria richiedano delle abilità che si ritiene di non possedere. Se un atleta viene considerato forte e talentuoso, ma lui non si percepisce tale, può innescarsi la paura di non essere all’altezza delle aspettative delle figure di riferimento (compagni, allenatore, familiari) o del pubblico, che produce il sabotaggio della tanto attesa vittoria. Indicativo di questa convinzione è il comportamento dell’atleta che in allenamento rende tanto di più che in gara, oppure, come accennavo all’inizio, quello dello sportivo che in occasione delle competizioni più importanti si classifica sempre al secondo posto.

Se prendiamo un atleta adolescente, queste convinzioni fanno parte del suo “normale” sviluppo.

La paura di non essere all’  altezza è fisiologica: fino a quando un giovane non si sente sufficientemente autonomo e pronto a scommettere su stesso, ad avere fiducia nelle proprie capacità, l’influenza degli adulti significativi e del gruppo dei pari rappresentano il termometro della sua autostima, nonché il nutrimento della sua personalità. Risulta quindi di fondamentale importanza comprendere il peso che queste aspettative hanno sulla sua crescita sportiva: più che queste risultano essere elevate, più le responsabilità che il giovane atleta si sente addosso aumentano. In queste condizioni, l’atleta oltre alla paura di deludere le aspettative altrui, può sviluppare anche la paura di non riuscire a mantenere uno standard di prestazioni alto. In molti ragazzi questa paura unita al pensiero del rendimento scolastico da mantenere può condurre anche all’ abbandono sportivo.

In altri casi, la paura di vincere può presentarsi nell’atleta a seguito di un successo inaspettato e repentino, che lo “strappa” dalle proprie abitudini, dal proprio ambiente, dal proprio ruolo nel mondo, e da tutto ciò che per lui prima era rassicurante, familiare e prevedibile: in questa situazione l’atleta può attuare comportamenti tali da permettergli di tornare alla situazione precedente, rifiutando i benefici della vittoria. Per un adolescente, lo sradicamento dal suo ambiente sicuro può essere a tutti gli effetti un trauma se non opportunamente gestito.

Che cosa si può fare?

Il mental training offre tanti strumenti di lavoro ma sicuramente il primo passo da fare è avere il coraggio di riconoscere le paure e i timori profondi legati alla vittoria e al successo, passaggio questo che per un atleta adolescente può risultare difficile, se non addirittura impossibile. Molto spesso la paura di vincere, di affermarsi, esprime un rifiuto a livello inconscio di una dimensione più matura di sé. Si tratta di una paura superabile a patto di ammetterla, anzitutto a se stessi, ricordando che non ha a che vedere con le proprie qualità, ma con un emotività non ancora ben “strutturata” su cui possiamo lavorare e migliorare. A volte ci si riesce da soli, altre volte può essere d’aiuto il sostegno di uno psicologo. E quando si parla di bambini e di ragazzi, di soggetti in età dello sviluppo, fondamentale è coinvolgere le figure adulte di riferimento: in primis i genitori ma anche l’allenatore.  

Per approfondimenti o domande in merito, contattatemi: info@eleonoraceccarellipsicologa.it

 

Agonismo e Scuola: binomio possibile. Il segreto? Il ruolo dei genitori

Nella mia attività incontro spesso genitori di giovani sportivi in ansia per la scuola. Da mamma capisco bene l’importanza dell’istruzione nella vita dei figli e dunque comprendo anche la preoccupazione dei miei pazienti. Semmai quello che capisco meno, che molte volte è fonte di conflitti in casa, è il fatto di paragonare tra loro scuola e sport come se fossero due antagonisti.

Sicuramente la scuola ha il primato tra le attività importanti per i nostri figli ma siamo sicuri che lo sport sia il suo più grande nemico?

La risposta è no. Anzi, lo sport è a tutti gli effetti un valido alleato, un amico della scuola. 

Io seguo tanti giovani sportivi che fanno agonismo, agonismo con la A maiuscola, passando tante ore in campo e in palestra, quasi quanto il tempo che passano a scuola. Fanno una vita fatta di tanto impegno, di sforzi, di passione e di molti sacrifici ma anche di risultati. Ragazzi di 14 anni che escono di casa la mattina alle 6 poco più per frequentare la scuola nella città dove si allenano, ragazze di tredici anni che giocano in campionati diversi e che prima delle 23 (quando va bene!) non rientrano mai a casa e giovani di 16 anni che almeno una volta al mese sono in trasferta in competizioni a livello nazionale ed internazionale. E ogni volta che parlo con loro, l’amore che li muove nel loro sport è davvero tanto, incommensurabile. Non li ho mai sentiti dire “Sono stanco/a perché faccio una vita stressante” oppure “Sono schiacciato/a dalla mia vita piena di impegni sportivi”. Semmai li ho sentiti affermare più volte e con tanta soddisfazione: “Questa è la mia vita. E’ faticosa ma sono felice di durare fatica per quello che amo fare!” oppure “Sono fiero di fare tutto questo per il mio sport, è la mia vita”. Non solo. Questi giovani ritagliano anche spazio per gli amici e per il tempo libero. Sappiamo bene quanto, negli anni dell’adolescenza, il gruppo dei pari sia di vitale importanza e farne parte è assolutamente fondamentale. E qualcuno, addirittura, riesce anche ad avere la fidanzata!

Quando parlo con i genitori invece spesso mi sento raccontare della vita stressante che fanno i figli e delle difficoltà scolastiche che incontrano, del tipo: “Nello sport va molto bene ma a scuola arriva alla sufficienza scarsa, dovrebbe fare di più!” o ancora “Per allenarsi trova sempre tempo, per la scuola mai. Quando arriva poi la pagella si ride!”. E queste stesse parole, le sento pronunciare anche in presenza dei figli e quando questo non si verifica so comunque per certo che a casa, l’annosa rivalità tra i risultati sportivi e quelli scolastici, è sempre all’ordine del giorno.

Così questi giovani sportivi si sentono contesi tra la vita sportiva e quella scolastica, sviluppando molto spesso emozioni contrastanti, ambivalenti, quali gioia, soddisfazione ed entusiasmo ma anche sentimenti quali senso di colpa, senso di inadeguatezza e l’autosvalutazione di sé: “Nello sport sono bravo ma nella scuola non sono nessuno!”. Questa frase spiega molto bene ciò che gli adolescenti vivono, la fatica che fanno a sviluppare un’immagine di sé positiva. E se lo sport per loro potrebbe essere a tutti gli effetti un valido alleato della loro autostima, posto in antitesi alla scuola, può trasformarsi in una bomba ad orologeria che può esporre i più giovani allo sviluppo di malessere e di disagio psicologico.

E’ qui che risulta importante il ruolo dei genitori, anzi fondamentale.

Il successo e il fallimento sono i principali elementi che alimentano lo sviluppo del Sé, la formazione dell’ identità personale. Pertanto, la convinzione di riuscire nelle attività sportive favorisce il conseguimento del successo, alimenta la fiducia e la stima di sé, contrastando l’insorgere di sentimenti negativi e l’assunzione di comportamenti problematici. Questi effetti positivi potrebbe essere d’aiuto  e quindi spendibili anche in campo scolastico, migliorando il rendimento e favorendo il conseguimento di risultati migliori. Come spiegato anche in un articolo precedente, numerose ricerche mettono in luce il fatto che tanti bambini e ragazzi, che a scuola hanno delle difficoltà più o meno riconosciute, come un disturbo dell’apprendimento oppure altro, spesso trovano nello sport una sana alternativa alla scuola, dove invece stentano a vedere maturare i frutti del proprio impegno.  E allora perché limitarli e talvolta privarli di qualcosa che invece li rende felici e più forti a livello psicologico?

Non è certo un limite il conseguire risultati in campo sportivo, semmai una risorsa. E come sottolineavo prima, tanti aspetti positivi del carattere che vengono fuori nel praticare una disciplina sportiva potrebbero essere rafforzati e valorizzati anche in ambito scolastico. Per questo, imprescindibile è il ruolo dei genitori che dovranno innanzitutto imparare a non mettere sempre a confronto scuola e sport.  I genitori, devono essere consapevoli di questo, dal momento che le loro parole e i loro comportamenti hanno un peso e condizionano profondamente i loro piccoli.

Per un figlio, sapere che un genitore  nutre e nutrirà fiducia in lui, che lo accetta e crede nelle sue potenzialità, lo aiuta ad accrescere la stima di sé e a essere più sicuro. E se lo sport rappresenta un contesto di vita importante per i giovani, dove riescono ad acquisire maggiore fiducia, allora occorre sostenerli e incoraggiarli in questo ambito. Nel fare questo, i genitori dovranno stare attenti a quelle che sono le loro personali risonanze, frutto della loro esperienza. I genitori sono per i figli dei modelli: se per gli adulti lo sport ha rappresentato il luogo dove hanno sviluppato la propria personalità e raggiunto dei traguardi, probabilmente verrà loro più facile supportare bambini e ragazzi nel percorso sportivo; viceversa, se per loro lo sport è stato una perdita di tempo, più difficile sarà trasmettere la passione e l’ impegno verso questo ambito. È importante, quindi, che il genitore, riconosca quelli che sono i propri vissuti rispetto alla vita sportiva del figlio, che potrebbero involontariamente influenzarlo senza rendersene conto.

Sicuramente fare tutto questo è un’impresa ardua, ma non impossibile. Se noi adulti in primis abbiamo fiducia in noi, nelle nostre potenzialità, allora anche per i figli sviluppare e nutrire questi sentimenti sarà più facile. Provare per credere e se avete delle difficoltà, fatevi aiutare prima che siate troppo tardi. Prevenire è meglio che curare. Buon lavoro!

 

La violenza nello sport: quando protagonisti sono i giovani

 

 

Quando parliamo di violenza nel mondo sportivo sicuramente ciascuno di noi pensa al mondo del calcio, alle risse e agli scontri che avvengono sugli spalti tra tifosi avversari, in occasione delle partite di campionato di serie A o della Champions League. Purtroppo i recenti fatti di cronaca offrono uno spaccato più ampio del fenomeno. Innanzitutto protagoniste sono le squadre minori, le squadre di paese, se così le possiamo definire,  dove i padri di famiglia – qualche volta anche le madri- sbraitano con toni oltraggiosi verso l’arbitro o l’allenatore mettendo in discussione il loro operato, o peggio ancora offendono verbalmente i giocatori della squadra avversaria che potrebbero essere i loro figli. In questi campi da calcio la violenza non viene agita solo a livello verbale ma anche a livello fisico: proprio qualche settimana fa, in una squadra giovanile della provincia di Arezzo, un padre ha picchiato l’allenatore perché il figlio ha giocato poco. Lo sport  è un’agenzia educativa che può e deve offrire valori nobili, ma se gli adulti che dovrebbero sostenere questo obiettivo ed essere dei punti di riferimento si comportano così, che cosa ci aspettiamo dai piccoli sportivi? La violenza genera violenza: se un genitore agisce in maniera violenta “autorizza e legittima” il figlio a fare altrettanto. Non c’è da meravigliarsi allora se gli episodi di bullismo nel mondo sportivo sono in crescita.

Spetta a noi adulti dare il buon esempio: i più giovani apprendono dal nostro comportamento. E quando protagonisti sono i bambini della scuola calcio, o comunque i piccoli atleti di una qualsiasi disciplina sportiva, non dobbiamo assolutamente dimenticarci che l’obiettivo primario di tutti deve essere quello di farli divertire in un ambiente sereno e sano. Probabilmente questo obiettivo è noto a tutti i genitori, anche se purtroppo conseguito e sostenuto da pochi. La domanda sorge spontanea, come mai? Troppo spesso capita di proiettare sui figli gli obiettivi che non abbiamo saputo raggiungere nel tentativo di una rivalsa personale, caricando così i più piccoli di pressioni e aspettative che li tengono lontani dal divertimento e da una crescita sana. Il peso di questo stress porta i bambini a lasciare troppo precocemente il mondo sportivo e a starne lontani anche per anni; le conseguenze dell’abbandono sportivo non le si osservano solo sul piano fisico ma anche (e soprattutto) sul piano psicologico: per molti bambini un’esperienza così emotivamente pressante è a tutti gli effetti un trauma. Interpellare lo psicologo quando il danno è stato fatto è fondamentale, anche se il suo coinvolgimento sarebbe prezioso precocemente, per prevenire l’insorgenza degli episodi di violenza degli adulti sul campo. La presenza di uno psicologo dello sport che lavora a fianco dell’allenatore, della società e delle famiglie rappresenta una risorsa, un riferimento indispensabile che offre loro supporto e assistenza al fine di garantire un sano sviluppo fisico, psicologico e sociale di bambini e ragazzi. Deve essere una figura che fa parte integrante dell’organico e presentata a tutti come tale: solo così si può creare un circolo virtuoso di fiducia reciproca, fondamentale per affidarsi e farsi aiutare. Troppo spesso gli psicologi vengono chiamati a contenere gli effetti del danno, inserendosi come “ospiti  indesiderati” in un contesto relazionale che li vive più come un pericolo che come un aiuto concreto. Purtroppo il peso dei pregiudizi rispetto alla categoria è ancora schiacciante. Ma se vogliamo promuovere e garantire il benessere dei nostri piccoli sportivi, non possiamo e non dobbiamo essere vittime delle nostre paure, dobbiamo vincere il pregiudizio e affidarci alle mani di un esperto che si occupa dei giovani e delle loro famiglie.

Dott. ssa Eleonora Ceccarelli 

Psicologo dello sport o mental coach? Assolutamente il primo. Il lavoro sulla mente è una cosa seria.

Scrivo questo articolo prendendo spunto dalla mia esperienza sul campo- e in alcune occasioni fuori dal contesto sportivo- con l’obiettivo di fare chiarezza sulla professione di psicologo e di tutelarla. L’ultima perla inerente la figura dello “strizzacervelli” risale a qualche giorno fa, in gelateria, dove intraprendo una chiacchierata con un’amica di una mia parente che di fronte alla mia presentazione professionale mi risponde di essere mental coach e taglia corto. Purtroppo, nel corso degli ultimi anni, il mental coach in ambito sportivo è diventata una figura in forte espansione e aumentano gli allenatori e gli sportivi che ci si affidano in modo da preparare anche mentalmente ed emotivamente gli atleti alle sfide sportive. Anche allenatori famosi, soprattutto in ambito calcistico come riportano le testate giornalistiche sportive più diffuse, si sono affidati a questa figura professionale per migliorare le prestazioni dei propri giocatori. Probabilmente il mio “purtroppo” all’ inizio del discorso vi ha già fatto intuire il mio punto di vista. Il mental coach per fare il suo lavoro si avvale di una formazione, dove acquisisce degli strumenti e delle tecniche che aiutano i propri clienti/atleti a tirare fuori le proprie risorse.  E’ sufficiente avere partecipato a un corso di pochi giorni o essere stato un atleta o avere una laurea in qualsiasi ambito; non è previsto alcun tipo di formazione universitaria specifica riconosciuta e può essere svolta da chiunque decida per motivi personali di intraprendere questo lavoro nello sport.
Persone di questo tipo sono sempre esistite in ogni professione, dagli esperti in benessere che propongono terapie mediche, ai personal trainer non laureati in scienze motorie, a chi si propone come allenatore solo perché ha svolto un determinato sport per molti anni. Ma siamo sicuri che tutto questo sia sinonimo di qualità ma soprattutto una tutela per il benessere e la salute delle persone?
E qui aggiungo un altro purtroppo. In questi ultimi anni, il termine “mental coach” è diventato un’espressione piuttosto diffusa per connotare una persona esperta nell’ allenamento delle abilità mentali. Ma prima di riempirsi la bocca di questo termine qualcuno sa chi è cosa fa il mental coach? E se questa parola può essere un sinonimo a tutti gli effetti di psicologo?
Lo psicologo, dopo un percorso che lo ha portato alla laurea magistrale, al tirocinio di un anno, all’esame di Stato e all’ iscrizione all’ ordine degli psicologi, è il professionista che è legalmente abilitato a fornire questo tipo di prestazioni. Esiste un albo regionale dove è possibile verificare l’iscrizione del professionista che, tra le altre cose, deve rispettare un codice deontologico.
La psicologia dello sport è la disciplina che nell’ ambito delle scienze dello sport e della psicologia, rappresenta il riferimento teorico e applicativo per l’esercizio di questa professione. Per lavorare in questo ambitolo psicologo deve formarsi ulteriormente attraverso corsi di perfezionamento o master che lo abilitano al lavoro con gli sportivi.
Mental coach e psicologo non sono due professioni equiparabili, sono due figure differenti, con obiettivi, strumenti ma soprattutto responsabilità diverse.
Non affidatevi a chiunque, prendete tempo e approfondite la formazione del professionista che avete individuato.
Fonti:
 https://www.ordinepsicologitoscana.it/gruppi-lavoro-articolo.php?idp=4089

Uno per tutti, tutti per uno! Il lavoro dello psicologo dello sport all’interno di una squadra

In diverse occasioni ho parlato del ruolo dello psicologo in campo; in questo articolo vi illustrerò il lavoro con una squadra.

Quando uno psicologo dello sport inizia un percorso con una squadra, il suo operato non può prescindere dal coinvolgimento del coach. Questo è il primo intervento in campo. E’ fondamentale stabilire con l’allenatore una relazione di fiducia e di scambio reciproco. Perché?

Perché l’allenatore ricopre il ruolo di leader all’ interno di una squadra, guidando i suoi atleti nel complesso dell’attività sportiva che li accomuna. E dunque, anche la riuscita di un lavoro di preparazione mentale per il gruppo dipende dalla sua figura, che diventa quella di facilitatore delle tecniche che lo psicologo insegna alla squadra.

Secondo step importante nel lavoro con una squadra è favorire e costruire il senso di appartenenza al gruppo, ovvero creare la mentalità del “noi”. Lewin (1972) ha definito il gruppo come “una totalità dinamica in cui i membri si trovano in un rapporto di interdipendenza e perseguono un fine comune”. Il gruppo non è la somma dei suoi membri e delle loro caratteristiche personali, è qualcosa di più: il suo elemento distintivo sono le dinamiche che si creano al suo interno. Se il discorso si focalizza sulla squadra sportiva, essa può esser definita come un piccolo gruppo orientato al compito e alla prestazione, i cui membri sono interdipendenti, vogliono raggiungere un fine condiviso e sviluppano una identità collettiva. Sono contemporaneamente coinvolti nello sforzo fisico individuale teso al raggiungimento di questo fine, consapevoli che la realizzazione di questultimo dipende dalla collaborazione e dall’ integrazione delle peculiari capacità e caratteristiche di ogni individuo con il resto del gruppo. Il lavoro dello psicologo ha l’obiettivo da una parte di promuovere la nascita e lo sviluppo di sentimenti e atteggiamenti positivi verso l’ ingroup; dall’altra, incoraggiare e dare visibilità a questo senso di appartenenza che è l’essenza stessa del gruppo. Per capire meglio, vi faccio un esempio. Sicuramente tutti voi conoscerete la danza degli “All Blacks”, i giocatori della nazionale neozelandese di rugby , i quali all’ inizio di ogni partita eseguono un complesso rituale maori di fronte agli avversari. L’avere qualche cosa di comune favorisce infatti l’identificazione reciproca tra i membri e la demarcazione dagli altri gruppi.

Infine, ma non per importanza, se la squadra è composta da bambini e adolescenti, il lavoro dello psicologo e dell’allenatore deve coinvolgere anche i genitori.

“Uno per tutti, tutti per uno!” non è solo il motto dell’allenatore e della sua squadra ma deve diventare anche quello dei genitori. E’ grazie a quest’ultimi, al loro prezioso ruolo di supporto nella vita sportiva dei figli, che gli obiettivi fissati e i risultati da raggiungere possono essere conquistati. Per mantenere un buon rapporto con i genitori è fondamentale incontrarli prima di ogni stagione per condividere le modalità operative e comprendere quali sono le loro aspettative. Molto spesso è proprio a questo livello, a livello delle aspettative, che si insinuano criticità tra allenatore, famiglie e società e dunque il supporto dello psicologo può fare la differenza.

 

Se siete interessati ad un approfondimento o ad una consulenza gratuita, scrivetemi a questo indirizzo: info@eleonoraceccarellipsicologa.it

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Lodare è salutare, esagerare con le lodi è diabolico!

Chi non ha bisogno di riconoscimenti, scagli la prima pietra!

Tutti ne abbiamo bisogno: noi adulti ma anche (e soprattutto!) i bambini. Si tratta di un bisogno fondamentale per la nostra salute fisica e mentale, esattamente come il bisogno di nutrirsi o di dormire.

L’adulto, genitore, allenatore o insegnante, che attribuisce riconoscimenti positivi potenzia nel bambino  la disponibilità ad ascoltare e ad apprendere. Non solo, comunica fiducia e sicurezza al piccolo rispetto alle sue capacità. Attenzione però: affinché le lodi siano funzionali  allo sviluppo psicologico  di un bambino, devono essere fondate,  riferite cioè ad un fatto reale e concreto. Facciamo un paio di esempi. Esempio uno: “Hai fatto bene a presentare al professore i tuoi dubbi sulla gita. Sei stato davvero sincero e l’insegnante lo ha apprezzato. Esempio due: “Complimenti per la gara che hai disputato, sei stato molto bravo. Era una competizione difficile e ti sei dimostrato determinato fino alla fine nel raggiungimento degli obiettivi che ti eri prefissato. Ti sei impegnato molto quest’anno, organizzandoti diligentemente con la scuola e con gli impegni del tempo libero. Te lo sei meritato”.

In questi casi, il riconoscimento dell’adulto riguarda un’ azione specifica agita dal minore: così facendo il genitore/allenatore sottolinea che quel comportamento è ritenuto positivo e dunque il bambino si sente legittimato e motivato a consolidarlo e a ripeterlo in occasioni successive. Nono solo. Il fatto che sia fatto riferimento all’ impegno impiegato per ottenere il risultato è importante: lavorare duramente per raggiungere un obiettivo è una preziosa spinta motivazionale che va  sicuramente sostenuta e incoraggiata. Spesso il fatto di sforzarsi e di impegnarsi viene vissuto come qualcosa di meno importante dell’essere intelligenti. Ma a scuola,  nello sport e in generale nella vita, ogni traguardo da raggiungere si prefigura come una sfida che richiede impegno; per questo motivo, meglio lodare i bambini per le qualità che possono controllare (come l’impegno appunto), affinché considerino le nuove sfide come opportunità per apprendere ma soprattutto per andare avanti nel percorso di crescita, con la consapevolezza che si possa sempre migliorare.

Espressioni di questo tipo invece: ”Sei eccezionale!”, “Quanto sei intelligente!”, Come sei brava”, “Sei davvero un campione” sono lodi non riconducibili ad un’ azione ben precisa; il rischio è quello  di produrre una generica “sviolinata”  che ha effetti negativi sullo sviluppo della personalità  del minore e  sulla relazione tra adulto e bambino.

Quando noi adulti diciamo qualcosa a un bambino indirettamente diciamo qualcosa su di lui. Ogni messaggio che gli viene inviato quindi gli comunica cosa pensiamo di lui e gradualmente il piccolo si costruisce un’immagine di come lo percepiamo come persona. Per questo motivo, qualsiasi comunicazione ha un impatto non solo sull’interlocutore ma anche sulla relazione che abbiamo con lui. Ogni volta che parliamo con i più piccoli, bambini ma anche adolescenti,  aggiungiamo un altro pezzo al puzzle che stiamo costruendo insieme.

I più piccoli hanno bisogno della nostra approvazione per diventare adulti. Non dobbiamo privarli dei nostri elogi per quello che hanno fatto se lo hanno fatto con passione e impegno. In questo caso la lode rappresenta un incoraggiamento: quando abbiamo lavorato duro e fatto un buon lavoro ci fa piacere che gli altri riconoscano e apprezzino il nostro impegno.

Valorizzare  il risultato o il talento , non accresce l’autostima, tutt’ altro;  in queste situazioni è stato osservato che i bambini  hanno difficoltà a tollerare le frustrazioni legate agli insuccessi che nella vita possono  inevitabilmente presentarsi;  inoltre,  manifestano maggiore insicurezza  di fronte alle difficoltà e sono  tendenzialmente  più resistenti a mettersi in gioco per migliorare i propri punti deboli.

Insomma, le lodi servono ma ci vuole misura nel complimentarsi con i propri figli per i piccoli o grandi successi quotidiani.

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