INFORTUNIO: LA RIABILITAZIONE E’ ANCHE PSICOLOGICA

Chi pratica sport, sia a livello agonistico che a livello amatoriale, prima o poi può imbattersi in un infortunio. Quest’ultimo rappresenta un evento destabilizzante le cui conseguenze si manifestano non solo a livello fisico ma anche e soprattutto a livello dell’equilibrio emotivo e psicologico. Vediamo cosa succede nello specifico.

Solitamente l’infortunio si presenta nella vita degli atleti senza preavviso: lo sportivo non può fare altro che arrendersi al suo decorso. Razionalmente la situazione è questa anche se praticamente per un atleta questa ”resa” non è affatto facile, anzi!

Il fattore tempo per molti può diventare un’ ossessione. Infatti, la prima domanda che uno sportivo si pone al momento del trauma è la seguente: “Quando potrò riprendere?”. Interrogativo che molto spesso diventa anche quello della società e dei genitori, quando l’ infortunato è un giovane. L’atleta tenta così di gestire il danno subito focalizzandosi su immediate fantasie di ripresa; ma quando arriva la consapevolezza che il tempo di recupero è connesso al trauma subito e darne un’indicazione precisa non è possibile, l’incertezza diventa protagonista. Il non sapere quando sarà possibile tornare ad allenarsi e partecipare alle gare, mette in discussione gli investimenti e gli sforzi fatti fino a quel momento, vanificando gli obiettivi della stagione sportiva. L’atleta vive così un forte smarrimento e spesso anche una grande solitudine, poiché è costretto ad allontanarsi dall’ ambiente sportivo, vissuto come una seconda famiglia.

Non solo. Quando il recupero procede positivamente e il rientro in campo è oramai vicino, il ricordo  dell’evento traumatico può ripresentarsi con forza, portando l’atleta a vivere con preoccupazione e insicurezza l’allenamento. Questa condizione risulta essere molto pericolosa, perché può condurre a nuovi infortuni e in casi più gravi, quando l’ansia diventa ingestibile, può spingere l’ atleta ad abbandonare l’attività sportiva.

Si comprende bene quanto i fattori psicologici abbiano un impatto significativo non soltanto sul benessere generale dell’atleta, ma anche sul decorso dell’infortunio. Quest’ultimo, se gestito con superficialità può essere un fattore di rischio per il ritorno alle gare dell’atleta.

L’ intervento dello psicologo dello sport risulta fondamentale quando si presenta un infortunio: la riabilitazione è anche psicologica.

L’atleta infortunato per tornare ad allenarsi con fiducia deve riconquistare la sua identità di sportivo.

Lo psicologo dello sport offre il supporto necessario per mantenere alto il livello di motivazione nei confronti del processo riabilitativo, che spesso è già di per sé faticoso e stressante, promuovendo un atteggiamento mentale positivo e individuando con l’atleta strategie e risorse per affrontare l’infortunio e garantire un  rientro all’attività  sportiva il più sicuro e veloce possibile. Inoltre, esistono delle tecniche mentali specifiche che rappresentano un ulteriore aiuto per lo sportivo.

L’importanza del lavoro psicologico è racchiusa in questo aforisma “Guarire è toccare con amore ciò che abbiamo precedentemente toccato con paura”. S. Levine

Allenarsi ai tempi del coronavirus: parola d’ordine motivazione

La psicologa dello sport è una valida alleata degli atleti anche in questo momento storico così delicato: gli strumenti che offre, possono supportare anche “a distanza” la preparazione mentale degli sportivi.

Intanto partiamo da questo presupposto: il valore e l’importanza dei rapporti umani, delle relazioni. Credo che non ci possa essere un apprendimento significativo senza delle relazioni significative. Chi di voi, nel suo percorso di vita, non ha subito l’influenza di un docente, di un allenatore o di un adulto?

Anche se, per molti atleti, lo sport è sospeso, non ci dimentichiamo dell’importanza di alimentare relazioni, soprattutto con i più giovani per i quali l’adulto rappresenta un modello di  riferimento. E’ attraverso questi rapporti che anche davanti ai blocchi imposti da dpcm e ordinanze varie, si può continuare ad alimentare la motivazione che spinge a fare sport e a resistere nei momenti critici. A volte manca questa consapevolezza negli allenatori, in generale negli adulti, perché questa emergenza sanitaria mette alla prova tutti, facendo vivere emozioni e sentimenti forti e intensi, che in casi estremi possono portare allo sconforto e alla rassegnazione. Il coronavirus sta prendendo e portandoci via tante cose, non facciamo portare via la passione più grande che abbiamo, quella di insegnare il nostro amore per lo sport. E quindi per riuscire a motivare i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze sarà importante innanzitutto motivare se stessi: come Plutarco scriveva: gli allievi “non sono vasi da riempire ma fuochi da accendere”. Questo il senso di ciò che dobbiamo imparare a fare.

Andando più nell’operativo, a proposito di relazioni e motivazione, in psicologia dello sport esiste una tecnica davvero preziosa: il goal setting ovvero la formulazione degli obiettivi.

Io uso moltissimo questo strumento con i miei atleti, soprattutto all’ inizio della stagione sportiva ma può essere una strategia efficace da usare anche adesso. Vi spiego brevemente come funziona per poi fare i dovuti approfondimenti.

Intanto, partiamo da questa domanda: Che cos’è un obiettivo? Possiamo definire un obiettivo “uno scopo, una meta, un  risultato che ci si propone di ottenere (www.garzantilinguistica.it)”. Solitamente ciò avviene attraverso il ricorso a strategie e individuando un intervallo temporale entro cui vorremmo che l’obiettivo si realizzi.  Il fattore tempo è importantissimo, ragione per cui occorre individuare e definire obiettivi a breve, medio e lungo termine.

In questo momento formulare obiettivi a medio e lungo termine è difficile perché di fatto in questa situazione di emergenza non sappiamo come ma soprattutto quando potremo ripartire. Ragione per cui, focalizzarsi su una pianificazione a breve termine è la strada migliore da perseguire, mantenendo comunque una attenzione al futuro e a ciò che è importante rimandare e magari rivedere. Infatti, agli atleti che hanno già lavorato sulla pianificazione su tutti e tre i livelli (breve, medio e lungo termine) suggerisco due cose: la prima è quella di mettere da parte il planning stagionale delle competizioni, che magari potrà tornare, anzi sicuramente sarà utile quando tutto ripartirà. E ovviamente quando sarà il momento questo documento dovrà essere rivisto, ridefinendo gli obiettivi prefissati.  

Ricordiamoci che una caratteristica fondamentale del goal setting è  la flessibilità: come di fatto è accaduto in queste settimane, con l’avvento della pandemia, raggiungere gli obiettivi stagionali prestabiliti diventa impossibile. E qui arriva il secondo suggerimento. Per non vanificare gli impegni di un’ intera stagione sportiva e non alimentare la percezione di impotenza e fallimento personale, è importante partire da questa domanda: “Quali sono gli obiettivi che posso raggiungere tenendo conto di questa situazione di blocco forzato?”

Gli obiettivi per gli atleti sono una vera e propria mappa: se le coordinate sono sbagliate e portano verso una meta irraggiungibile, non si arriva a destinazione. Ecco, una situazione di questo tipo non deve assolutamente verificarsi, per non alimentare negli sportivi, indipendentemente dal tipo di disciplina praticata, paure e preoccupazioni inutili, soprattutto ora che viviamo in questa condizione di disorientamento.

La domanda posta sopra “Quali sono gli obiettivi che posso raggiungere tenendo conto di questa situazione ?” è un valido interrogativo anche per chi si trova a cimentarsi per la prima volta con la pianificazione degli obiettivi. E’ importante partire da qui e darsi degli obiettivi giornalieri da rivedere alla fine di ogni settimana. Si tratta di un’importante strategia motivazionale che a sua volta genera soddisfazione e benessere.

Oltre al fattore tempo, affinché la tecnica del goal setting sia efficace è fondamentale che gli obiettivi:

  • vengano formulati in maniera chiara e precisa e che siano raggiungibili per l’atleta. Al contrario, obiettivi ambiziosi o mete troppo vaghe possono esporre l’atleta (e il suo staff) a insuccessi e frustrazioni.
  • Siano misurabili: ciò permette di analizzare nei dettagli il risultato ottenuto e di assegnargli un punteggio (ad esempio su una scala da zero a dieci) al fine di comprendere cosa ha funzionato e cosa, invece, sarà necessario andare a migliorare.
  • Siano espressi in positivo: le ricerche hanno evidenziato che, in alcuni casi, sia inefficace concentrarsi su obiettivi caratterizzati da frasi che contengono il “non” (es. non devo fare errori, non devo compiere movimento, non devo essere così rigido). Solitamente così facendo otteniamo l’esatto contrario di quello che vogliamo.

Ricordo infine che la tecnica del goal setting è molto più efficace se vede la partecipazione dell’allenatore.  La condivisione degli obiettivi tra atleta e istruttore è di fondamentale importanza, in questa condizione di allenamento a distanza lo è ancora di più, visto che si tratta di un strumento concreto, un valido supporto relazionale in questo momento di isolamento forzato.  

Buon lavoro e se necessitate di un approfondimento più individualizzato contattatemi info@eleonoraceccarellipsicologa.it

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Riferimenti Bibliografici:

“MAMMA E BABBO VOGLIO FARE CALCIO” Quali sono i fattori che influiscono sulla scelta di uno sport e sulla motivazione?

L’attività sportiva  ha un’importanza fondamentale nello sviluppo fisico, psicologico e sociale di bambini e adolescenti.

Ma come si arriva alla scelta di un determinato sport? 

Prima Regola fondamentale: dobbiamo essere noi genitori, in primis,  ad essere preparati su questo argomento, conoscendo i fattori che possono influenzare la scelta.

Prima o poi accadrà che nostro figlio sia interessato  a  praticare uno  sport, presentandosi  con la fatidica affermazione “Mamma e babbo voglio fare calcio”Sicuramente qualcuno di voi si sarà domandato: Come ha sviluppato l’interesse per questa specifica disciplina?”

Può darsi che sia attratto dal tennis perché lo ha praticato in vacanza oppure perchè lo ha provato alla festa dello sport; oppure ancora perché lo fa l’amico del cuore o qualcuno in famiglia. Ciascuno di questi fattori avrà una sua influenza peculiare non solo rispetto alla scelta e quindi all’ avviamento di un determinato sport, ma anche rispetto al suo mantenimento.

Tutto ciò è riassumibile nel concetto di motivazione allo sport.

Quando si parla di motivazione, si fa riferimento alla spinta dell’individuo ad agire ed a mettere in atto comportamenti orientati a uno scopo. Affinché si inizi nella propria vita a praticare una qualsiasi attività, infatti, è necessaria una spinta, una causa, appunto una motivazione.

Nel caso in cui la scelta di un figlio sia dettata da un’esperienza diretta sul campo, l’avviamento allo sport sarà agevolato e sostenuto da un’ alta motivazione. Quest’ultima, se rimane tale, sarà fondamentale anche nel mantenimento di quella specifica disciplina nel tempo.

Quando invece la decisione è incoraggiata dall’ amico del cuore, il piccolo si avvicinerà con facilità allo sport e probabilmente nutrirà anche molto entusiasmo all’ inizioma non è detto che manterrà l’interesse per quella disciplina stabile nel tempo; il rischio di abbandono potrebbe essere dietro l’angolo.

Se invece la scelta è dettata dall’ esperienza di qualcuno in famiglia, nello specifico di uno dei due genitori, occorrerà fare attenzione e comprendere la reale motivazione sottostante: è il figlio che ha scelto perché si è appassionato ad uno sport tanto raccontato a casa oppure è il genitore che ha “indirizzato” questa decisione  probabilmente  per  un   riscatto   personale   per   traguardi   che   non   è   riuscito   a   raggiungere? In quest’ultimo caso, gli effetti negativi della scelta non si verificheranno solo a livello della pratica sportiva (scarso coinvolgimento, bassa motivazione, abbandono precoce) ma anche a livello psicologico, ad esempio sull’ autostima e sul senso di autoefficacia . Non dimentichiamoci che stiamo parlando di bambini e ragazzi, di soggetti in evoluzione. Lo sport, come già detto all’ inizio, serve loro non solo per un migliore sviluppo sul piano fisico ma anche a livello emotivo e relazionale. Soprattutto durante l’adolescenza, la loro personalità si modella sulla base della personalità degli adulti che li circondano;  voi genitori, dovete essere assolutamente consapevoli dell’ importanza del vostro ruolo: le vostre parole e i vostri comportamenti hanno (e avranno) un peso. Per un figlio, sapere che mamma e babbo nutrono e nutriranno fiducia in lui, che lo accettano e credono nelle sue potenzialità, lo aiutano ad accrescere la stima di sé e a essere più sicuro.

Sicuramente la situazione in cui un figlio sceglie di praticare uno sport in base alla propria personale esperienza, è la condizione migliore da un punto di vista motivazionale, ma senza un adeguato supporto da parte degli adulti significativi, dei genitori e dell’allenatore, non è detto che possa durare nel tempo.

È proprio il sostegno da parte degli adulti che può fare la differenza anche nei casi in cui la motivazione è bassa, o comunque labile.  

In che modo allora, come genitori, possiamo aiutare i nostri figli a maturare la passione e l’interesse per quello sport?

Per prima cosa dobbiamo essere empatici; Ciò vuol dire aiutarli a stare dentro gli impegni presi, accompagnarli nel loro percorso, stando attenti a ciò che ci chiedono soprattutto con il corpo, con il linguaggio non-verbale, perché con quello verbale a volte non sono in grado di esprimersi.

C’è chi ha bisogno di essere sostenuto, incoraggiato e chi ha bisogno di essere lasciato in pace, cioè di vivere un’esperienza, accompagnato sì, ma messo in grado di potersi confrontare da solo col mondo.

È un diritto dei minori sperimentarsi, nel bene e nel male, senza il controllo diretto dei genitori anche sapendo che un altro adulto vigila su di loro. Inoltre, fondamentale è la consapevolezza dei nostri schemi emotivi, che si traduce nel saper gestire emozioni e atteggiamenti, consci dell’importante ruolo educativo svolto.

Psicologo dello sport: chi è e cosa fa

Chi è lo psicologo dello sport?  Innanzitutto è un laureato in psicologia (5 anni di laurea, 3 anni di triennale + 2 di specialistica) che successivamente ha svolto un anno di tirocinio obbligatorio per sostenere l’esame di stato per essere iscritto all’albo degli psicologi. Successivamente ha partecipato ad un master specialistico in psicologia dello sport. Alcuni possono essere  anche psicoterapeuti (hanno cioè preso una specializzazione di 4 anni dopo l’esame di stato), ma non è obbligatorio essere psicoterapeuti, poichè sono due ambiti di lavoro diversi, che possono integrarsi oppure no.

All’interno del mondo dello sport, la figura dello Psicologo sta prendendo sempre più campo e diversi  sono i motivi di questo crescente coinvolgimento. In primo luogo, grazie ad una corretta informazione sulla figura dello psicologo che sta abbattendo numerosi pregiudizi (“A me non serve lo Psicologo dello Sport! Non ho mica problemi!” o “Sto benissimo. Non ho certo l’ansia! quindi a che mi serve? ”o ancora “Mica sono un professionista!”).

La psicologia dello sport è una disciplina relativamente giovane che si è conquistata uno spazio di autonomia all’interno della psicologia. Rientra nella classe della Psicologia Applicata, studia il comportamento umano e i processi psichici nell’ambito dello sviluppo psico-fisico e dell’attività sportiva.

Lo psicologo non è un nemico dello sport, semmai un valido alleato che mette a disposizione la sua specifica formazione per aiutare gli atleti a incrementare la performance individuale o di gruppo. A conferma di ciò, la cronaca degli ultimi decenni riporta sempre più spesso la testimonianza di atleti olimpionici che si sono avvalsi del sostegno di uno psicologo dello sport per migliorare la propria performance. Ad oggi, sono tante le ricerche scientifiche che dimostrano come le abilità mentali possono essere allenate e potenziate, incidendo positivamente sulla prestazione. Infatti, a fianco dell’intensa  attività di ricerca si è fatto spazio il lavoro sul campo, che ha permesso la nascita di diverse tecniche e metodologie in grado di potenziare e migliorare il livello di performance degli atleti e delle squadre di varie discipline. Ma la psicologia dello sport rappresenta una valida risorsa non solo per chi pratica una disciplina ad alti livelli ma anche per tutti coloro che praticano sport, amatori e nonche lavorano nel mondo sportivo (allenatori, dirigenti, tecnici, arbitri, medici, personal trainers, nutrizionisti, etc..) o che vivono il mondo dello sport, per esempio i genitori, possono usufruirne e trarne grandi vantaggi. Quest’ultimi, quando si parla del settore giovanile, rappresentano il target chiave nel lavoro con i più giovani, dal momento che l’obiettivo del lavoro con i bambini e i ragazzi non è tanto la performance quanto piuttosto un sano sviluppo.

Ma il lavoro dello psicologo dello sport spazia anche in altri settori:

  • Area della Terza età: per gli anziani, promuovendo ad esempio lo sviluppo di politiche di promozione dello sport;
  • Area della Riabilitazione (psicotraumatologia): per chi si trova alle prese con la ripresa da un infortunio. In questo settore, lo psicologo interviene sul trauma, sulle paure, sull’ansia da prestazione e sulla perdita di autostima che spesso rendono difficile il ritorno all’attività, ben oltre i tempi fisiologici della riabilitazione fisica.;
  • Area della Disabilità: per le persone con disabilità motorie e cognitive;
  • Area del Fitness: educare a stili di vita attiva e incoraggiare l’adesione a programmi per il fitness, sviluppando o rafforzando delle importanti modalità di cura di sè
  • Area del Wellness: per coloro che praticano attività motoria  al fine di ottenere e mantenere uno stato di benessere psicofisico;
  • Area della ricerca: per promuovere l’ideazione e l’applicazione di metodologie e tecniche sempre più appropriate, aggiornate e trasversali alle aree su menzionate.

Pertanto, seppur nella diversità degli ambiti di applicazione e di obiettivi, lo psicologo e la psicologia dello sport si rivolgono a tutti coloro che praticano attività fisica e/o sportiva direttamente e a tutti quelli che ne sono coinvolti indirettamente (allenatori, istruttori, genitori).

Ragione per cui, risulta importante che lo psicologo abbia un’opportuna. Nello scenario attuale, l’ attenzione agli aspetti psicologici della prestazione se da un lato ha fatto crescere il coinvolgimento e il riconoscimento della categoria professionale, dall’altro ha innescato il proliferarsi di nuove figure, di professionisti della mente  senza alcuna formazione e laurea psicologica. Da qui la necessità di un riconoscimento istituzionale della figura dello psicologo dello sport.

 

Urlare serve davvero?

Può capitare di perdere la calma e di alzare la voce con i più piccoli e questo può accadere a qualsiasi adulto, anche a chi è per natura paziente. Genitori, insegnanti, allenatori ed educatori sono  un modello per i più piccoli: rispondere alle richieste con rabbia e nervosismo non può che generare rabbia e nervosismo!

Perché si ricorre alle urla, quali sono le difficoltà che gli adulti lamentano più frequentemente?

“Se gli parlo fa finta di non sentirmi, cosa posso fare se non alzare la voce?”

Probabilmente è vero che nell’immediato bambini e bambine, ragazzi e ragazze,  si fermino ad ascoltarvi solo quando urlate, mossi dal fatto di fare qualcosa solo per accontentarvi e mettervi a tacere, senza però comprendere davvero la situazione o la gravità delle azioni per cui vengono rimproverati.

”Basta! Mi sta prendendo in giro, ora mi sente”

Gridare alimenta paura e timore, non rispetto. I più piccoli non devono vivere nel terrore. Mortificati dalle urla, i più piccoli non si concentrano sul contenuto del rimprovero ma apprendono solo ad avere timore e a rispondere opponendosi e attaccando. La paura dell’adulto genera un muro nella comunicazione che porta i bambine e le bambine, i ragazzi e le ragazze, a chiudersi in loro stessi.

Alzare la voce su un piano educativo e psicologico non ha alcuna utilità. Apparentemente l’unica utilità che può avere è per l’adulto, che in quel momento sente di avere uno strumento per farsi ascoltare da un bambino disubbidiente. Per poi  magari il momento dopo pentirsene: è assolutamente inutile fare la voce grossa per poi cedere alle richieste al fine di alleviare frustrazione e senso di colpa.

I più piccoli hanno bisogno di essere ascoltati  ma non devono temervi, perché faranno ancora più fatica ad aprirsi e parlare con voi.

Dal momento che gli adulti rappresentano un “esempio da seguire”, se volete che i più piccoli vi ascoltino,  dovete essere voi i primi a essere capaci di farlo. La comunicazione è fondamentale: occorre sempre spiegare le proprie ragioni, ascoltando anche il punto di vista dei bambini e le bambine, dei ragazzi e le ragazze, facendo capire loro le motivazioni di un no, di una richiesta o di una regola. Non si tratta di una lotta di potere, né un braccio di ferro per dimostrare chi è più forte.

Può succedere di perdere la calma e alzare la voce, ma urlare deve restare un provvedimento eccezionale. Pur dovendo fornire regole e limiti, siate comprensivi, spiegategli i motivi di un eventuale sgridata e aiutateli a comprendere quanto sta accadendo; così facendo, potranno comprendere le regole, assimilarle e quindi rispettarle. Inoltre, fate attenzione anche al fatto che soprattutto i più piccoli, vivono le emozioni in modo assoluto. Quando gli adulti sono arrabbiati, i bambini e le bambine pensano davvero che non li amate più. Ricordatevi di  far riferimento al comportamento e non all’ intera persona (“Mi hai fatto arrabbiare per il tuo comportamento”), ovvero commentare l’atteggiamento da correggere ma mai attaccare la sua integrità altrimenti si sentirà rifiutato e inadeguato, si metterà sulla difensiva o adotterà ancora di più comportamenti oppositivi e provocatori. . Per farvela breve, l’urlo deve essere seguito da un sorriso e dalla volontà di riconciliarsi

La definizione degli obiettivi e le sue potenzialità in ambito sportivo

 

Settembre per me è sempre stato il mese dei buoni propositi; l’ estate è al tramonto, le ferie sembrano già un ricordo lontano: avere dei progetti in mente per i freddi mesi a venire è doveroso, anzi fondamentale!

Anche nel mondo sportivo settembre è il mese della “partenza”, periodo in cui si definisce il programma della nuova stagione. Non fa una piega! E allora perché qualche volta accade che pur avendo in mente l’obiettivo o la meta che vorremmo raggiungere, non riusciamo nei nostri intenti? Probabilmente non è così facile come sembra.

La psicologia della sport offre un valido aiuto, proponendo una strategia molto efficace: la tecnica del goal setting o formulazione degli obiettivi.

Io uso moltissimo questo strumento con i miei atleti, soprattutto all’inizio della stagione sportiva.

L’ applicazione della tecnica è facile di per sé e se vogliamo anche veloce (non più di un’ora) tuttavia è necessario un lavoro profondo, di grande consapevolezza da parte dell’atleta che in alcuni casi può necessitare di un sostegno  più prolungato da parte dello psicologo per raggiungere quanto stabilito.

Si tratta di una strategia che può essere usata individualmente o in gruppo e preferibilmente con la partecipazione dell’allenatore.  La condivisione degli obiettivi tra l’atleta e tutte le figure significative che lo circondano è di fondamentale importanza poiché spesso accade che la mancata corrispondenza tra gli obiettivi individuati dall’atleta e quelli dell’ allenatore (talvolta anche tra quelli della società) può inficiare l’esito della prestazione.

Anche se l’esperienza di goal setting di ogni sportivo è soggettiva, è possibile dare una definizione generale delle caratteristiche di questa tecnica. Andiamo a vedere di cosa si tratta.

Intanto, Che cos’è un obiettivo? Possiamo definire un obiettivo “ uno scopo, una meta,un  risultato che ci si propone di ottenere (www.garzantilinguistica.it). Solitamente ciò avviene attraverso il ricorso a strategie e individuando un intervallo temporale entro cui vorremmo che l’obiettivo si realizzi.  Il fattore tempo è importantissimo, ragione per cui occorre individuare e definire obiettivi a breve, medio e lungo termine.

Gli OBIETTIVI A BREVE TERMINE sono quelli che ci prefiggiamo di raggiungere nel giro di pochi mesi, in un tempo molto breve quindi. Sono gli obiettivi su cui focalizziamo la nostra attività all’inizio dell’anno sportivo, permettendoci così una prima valutazione della nostra performance. Si tratta di obiettivi che definiremo di “prestazione o performance” vale a dire quelli che si focalizzano sull’ acquisizione o sul perfezionamento di un gesto atletico o di una certa abilità mentale.

GLI OBIETTIVI A MEDIO TERMINE, si riferiscono ai risultati che vorremmo ottenere all’ incirca a metà della stagione sportiva (entro 6 mesi). Questi obiettivi mettono a fuoco la direzione verso cui stiamo andando, facendo emergere ciò che serve per andare avanti.

GLI OBIETTIVI A LUNGO TERMINE sono quelli che vorremmo raggiungere attraverso l’intera annata sportiva, offrendoci così una pianificazione generale di quello che sarà il nostro percorso sportivo. Gli obiettivi a lungo termine stimolano in maniera attiva l’atleta, soprattutto se protagonisti sono i più giovani, maggiormente esposti a un’organizzazione serrata dei ritmi di studio (o lavoro) con gli impegni sportivi.

Oltre al fattore tempo, affinché la tecnica del goal setting sia efficace è fondamentale che gli obiettivi:

  • vengano formulati in maniera chiara e precisa e che siano raggiungibili per l’atleta.

Al contrario, obiettivi ambiziosi o mete troppo vaghe possono esporre l’atleta (e il suo staff) a insuccessi e frustrazioni.

  • Siano misurabili: ciò permette di analizzare nei dettagli il risultato ottenuto e di assegnargli un

punteggio (ad esempio su una scala da zero a dieci) al fine di comprendere cosa ha funzionato e cosa, invece, sarà necessario andare a migliorare.

  • Siano espressi in positivo: le ricerche hanno evidenziato che, in alcuni casi, sia inefficace concentrarsi su obiettivi caratterizzati da frasi che contengono il “non” (es. non devo fare errori, non devo compiere movimento, non devo essere così rigido). Solitamente così facendo otteniamo l’esatto contrario di quello che vogliamo.
  • Siano flessibili; infatti, potrebbe capitare che un atleta si accorga di non essere in grado di raggiungere l’obiettivo prestabilito ad esempio per l’insorgere di un infortunio. Per non vanificare gli impegni di un’ intera stagione sportiva, la strategia migliore sarà quella di ridefinire gli obiettivi prefissati per poter essere sempre motivati a dare il massimo per il loro conseguimento.

Tutte queste regole oltre a promuovere il raggiungimento degli obiettivi prefissati permettono di tenere alta la motivazione.

E allora se è vero che “CHI BEN COMINCIA È GIÀ A METÀ DELL’OPERA” che cosa aspettate? Sotto con il goal setting! 

L’ ansia da gara: conoscerla per gestirla

 

L’ ansia può diventare una valida alleata, sia nello sport che nella vita di tutti i giorni.

Certo, riuscire a rendere l’ansia nostra “amica”non è per niente facile, anzi! E’ difficile innanzitutto perchè siamo abituati a vederla come qualcosa di esclusivamente negativo, configurandosi come uno tsunami che si presenta con la sua forza distruttiva nelle situazioni per noi più significative. E molte volte si arriva dallo psicologo proprio quando la situazione sfugge oramai da ogni controllo possibile: l’ansia da prestazione è infatti, una tra le problematiche più diffuse tra gli sportivi.

Quando parliamo di ansia da gara comunemente ci riferiamo ad un’attivazione ( o arousal) eccessiva in risposta ad una competizione.

Per ottenere una performance ottimale serve un’attivazione ottimale, ovvero un buon bilanciamento dei livelli d’ansia. Ad esempio, chi affronta prove molto dure, estreme, come un pilota di moto gp, o un atleta di triathlon, non è che ha meno paura o ansia degli altri, ha solo imparato a riconoscere e a gestire i propri sentimenti per spingersi fino al limite senza superarlo. Questo è ciò che ogni sportivo dovrebbe imparare a fare per essere performante

Detto ciò, il primo passo fare per rendere l’ansia una nostra alleata,  è quello di riconoscerla: non dobbiamo scacciare l’ ansia- come se fosse un mostro- ma dobbiamo imparare a comprenderla e….  a gestirla!

Quali sono i segnali riconducibili all’ansia da gara?

 A livello corporeo,  le principali alterazioni fisiologiche osservate negli adulti sono:

  • respirazione superficiale e periferica molto veloce;
  • aumento della frequenza cardiaca;
  • possibili aritmie;
  • aumento della tensione muscolare;
  • aumento della sudorazione, anche in assenza di movimento fisico o temperature troppo elevate;
  • sensazione di pesantezza alla bocca dello stomaco;
  • vomito e diarrea;
  • irrequietezza;

In abbinamento a questi segnali corporei troviamo anche delle  di componenti di tipo cognitivo, come la presenza di immagini e pensieri negativi (es., “la partita andrà male”, “farò una figuraccia”) o ancora la sensazione di essere continuamente osservati, la cui percezione aumenta ancor più il disagio e l’apprensione, alimentando il senso di impotenza nell’ affrontare ciò che sta accadendo.

Nei bambini invece prevale la componente somatica: solitamente è difficile  esprimere a parole l’inquietudine vissuta.  Alla luce di ciò, risulta fondamentale , da parte degli adulti significativi, saper osservare le manifestazioni corporee dei più piccoli e i comportamenti agiti, in modo da intercettare tempestivamente eventuali indicatori di  disagio.

Infine, la sindrome ansiosa è personale: non tutti gli atleti presentano gli stessi sintomi; alcuni manifestano la loro ansia principalmente a livello corporeo, altri invece a livello comportamentale e soggettivo (variabilità interindividuale). In più, lo stesso atleta può manifestare il proprio stato ansioso in modo diverso, ad esempio in competizioni differenti (variabilità intraindividuale).

Queste informazioni sono utili ai fini dell’intervento: non esiste una strategia che funzioni sempre, per qualsiasi persona, e in qualsiasi situazione. Lo psicologo dello sport, infatti, aiuta l’atleta a individuare le strategie più funzionali, tenuto conto del suo peculiare funzionamento emotivo, cognitivo e relazionale e dello specifico contesto sportivo. Non solo, quando protagonisti sono i più giovani, bambini e adolescenti, può essere utile coinvolgere e lavorare con i genitori e con gli allenatori, con gli adulti significativi, che rappresentano degli “osservatori” privilegiati. 

L’ansia non è una malattia e dunque non va curata, soprattutto ricorrendo ai farmaci. Le malattie vanno curate, le emozioni e i sentimenti vanno compresi, gestiti e risolti. Soprattutto quando il livello di ansia aumenta, al punto di essere esagerato rispetto alla prestazione, e questa condizione si cronicizza estendendosi a tutte le competizioni disputate e spesso anche alle sedute di allenamento, risulta fondamentale rivolgersi ad un professionista, ad uno psicologo dello sport. Quando l’ansia da prestazione viene gestita, i risultati positivi non si osservano solo a livello della performance sportiva ma a livello più generale: infatti, si inizia “naturalmente” a vivere meglio.

 

AMMALARSI DI SPORT: QUANDO L’ATTIVITA’ FISICA DIVENTA UN’OSSESSIONE

Lo sport fa bene al corpo e alla mente, “mens sana in corpore sano” dicevano i latiniPuò succedere però  che il fare attività fisica si trasformi in un pensiero costante. In questo caso, si parla di dipendenza da sport: l’esercizio fisico prende il sopravvento e diventa prioritario su tutti gli altri settori della vita: il troppo stroppia! 

 

Quali sono i segnali che ci fanno capire che il limite è stato superato?

Se lo sport diventa “troppo”, la mente si polarizza solo e soltanto sull’ organizzazione della giornata all’insegna dell’esercizio fisico. Un tale forma mentis comporta l’incapacità di concentrarsi su altre attività, essendo il fitness l’unico pensiero ricorrente. Ne consegue, che lo sport, diventa un vero e proprio “chiodo fisso”:  Non si pensa ad altro, tutte le azioni e gesti quotidiani sono finalizzati all’ avere tempo per andare in palestra e praticare sport. L’esercizio fisico prende così il sopravvento su  altri settori importanti della vita, come la famiglia, il lavoro, le amicizie all’ interno dei quali possono insorgere delle difficoltà o problematiche che prima non erano presenti.  

E visto che questo fenomeno è a tutti gli effetti una dipendenza, non dovremmo meravigliarsi se tra i comportamenti tipici, e dunque di allarme, troviamo proprio quelli di chi ha una dipendenza da sostanze. Tra questi, ad esempio, riscontriamo l’aumento graduale della quantità di esercizio per ottenere benessere (fenomeno della tolleranza); il disagio fisico o psicologico in relazione alla riduzione o alla cessazione delle sedute di allenamento, che possono portare ad una vera e propria crisi di astinenza con i suoi sintomi peculiariin mancanza dell’esercizio l’individuo sperimenta effetti negativi quali ansia, irritabilità e problemi legati al sonnoRispetto però alla dipendenza da sostanze, quella da sport spesso non viene riconosciuta socialmente come tale.  Nel   caso   dello   sport   compulsivo   la   dipendenza   che   si   viene   a   creare   è    qualcosa   che   la   stessa   società   reputa   come   salutare   e   positiva.  Questo   rende   ancor   più   difficile   per   la   persona   accorgersi   che   qualcosa   non   va   più   come   prima.

Inoltre, va segnalata la frequente presenza di anoressia e bulimia nervosa associate alla “pratica fisica dipendente” e alimentate dalle stesse motivazioni di controllo del peso e dell’aspetto fisico, soprattutto nelle donne, anche se i casi che riguardano il sesso maschile sono in aumento

 

Come si interviene?

Alla luce di quanto appena descritto, evidenti sono i meccanismi psicologici che alimentano e sorreggono questo tipo di dipendenza. Ne consegue che l’interruzione della pratica sportiva non rappresenta, di per se stessa, la strada che porta alla guarigione, anzi! Laddove è presente anche un disturbo dell’alimentazione, non è raro infatti riscontrare che il tentativo superficiale di sospensione della dipendenza sportiva possa addirittura aggravare la problematica connessa al controllo del cibo.

Un obiettivo importante sarà proprio quello di ritornare ad un esercizio adeguato dal momento che, come sottolineato più volte un’attività fisica moderata è da considerarsi una sana abitudine. Per raggiungere questo obiettivo, che sembra così semplice e lineare, in realtà vanno ricercate e risolte, le cause psicologiche sottostanti la dipendenza; e molto spesso agire da soli, senza l’aiuto di uno psicologo è davvero difficile. Anche perché, come anticipato sopra, la consapevolezza di avere un problema di dipendenza raramente è presente e quando lo è non è detto che incoraggi il cambiamento. E allora? Oltre alle cause psicologiche è necessario rintracciare le cause relazionali che hanno generato il disturbo. Perché una persona arriva a polarizzare tutta la sua vita nell’esercizio fisico? Quali sono state le esperienze relazionali pregresse che lo hanno portato a investire tutto sull’ attività sportiva fino ad arrivare ad esserne dipendente? Molto spesso chi trova rifugio in una dipendenza patologica è stato vittima di un controllo eccessivo da parte delle figure genitoriali, che ha minato lo sviluppo dell’autostima e della fiducia in sé. L’interiorizzazione di vissuti di inadeguatezza accrescono nel bambino e nel futuro adulto la convinzione di non potercela fare da solo e dunque il bisogno di dipendenza. Il dedicarsi in maniera eccessiva ad uno sport risponde a questo bisogno. Non solo, riesce anche ad offrire un appannaggio di indipendenza e l’ illusione di avere il controllo della situazione. Conoscere le dinamiche relazionali che hanno indotto e sostenuto lo sviluppo di una dipendenza è il primo passo per poter cambiare un comportamento disfunzionale e intraprendere la via della guarigione. 

 

Ansia da prestazione: alleata o nemica?

Perché si parla di ansia da prestazione nel mondo dello sport?

Sicuramente molti atleti (e non solo) si saranno confrontati con questo tipo di vissuto nel corso della loro esperienza. Quando si parla di sport, si fa riferimento a una forma di attività fisica che ha diversi obiettivi, tra cui il conseguimento di risultati nel corso di competizioni a tutti i livelli.

La gara rappresenta per un atleta un “esame” che mette in discussione i suoi investimenti fisici e psicologici; alla luce di ciò, egli può avere una risposta d’ansia normale o patologica alla gara. E qui forse qualcuno potrebbe rimanere sorpreso e domandarsi: “Esiste una risposta di ansia normale?” La risposta è affermativa e vediamo perché. Come accennavo prima, l’ansia è un’emozione di cui tutti abbiamo fatto esperienza almeno una volta nella vita. Comunemente pensiamo all’ansia come un ad un fenomeno negativo: questo non è sempre vero, dal momento che l’ansia rappresenta uno “stato di attivazione  fisiologico e comportamentale” (arousal) utile ai fini della sopravvivenza della specie. E’ la nostra mente che fa tutto questo al fine di proteggerci da un’eventuale situazione di pericolo, di stress, qual è appunto la gara.

Quando l’atleta deve compiere una prestazione, il suo organismo deve  infatti attivare una serie di processi fisici e psicologici che gli permettono il raggiungimento del risultato ottimale. Per raggiungere ma soprattutto per mantenere l’ attivazione ottimale, l’atleta ha bisogno di un giusto livello di ansia, una risposta d’ ansia che definiremo “normale”. Ogni atleta ha la sua zona di funzionamento ottimale. 

Quando invece il livello di ansia aumenta, al punto di essere esagerato rispetto alla prestazione che dobbiamo svolgere, non riusciremo più ad ottenere dei buoni risultati. Questa risposta è di tipo “patologico”, non funzionale alla competizione che viene disputata. Questa condizione di ansia esagerata, può verificarsi in una singola gara e rimanere dunque un episodio isolato, oppure può succedere che venga esperita con regolarità; in quest’ultima situazione, l’atleta si trova a vivere in modo preoccupato e allarmato tutte le competizioni che dovrà disputare con conseguenti  effetti negativi sulla performance e più in generale sul benessere fisico, psicologico e sociale.

Come si manifesta l’ansia da prestazione “patologica”? Quali sono i segnali che il nostro corpo manda quando vive questo impasse? Ma soprattutto come si gestisce? Ne parleremo nel prossimo articolo.  Buona lettura!

ESTATE: TEMPO DI ACQUA E DI BAGNI AL MARE. COME AIUTARE I PIÙ PICCOLI AD AVERE UN RAPPORTO SERENO CON L’ACQUA

Per un  neonato l’ambiente acquatico è quanto di più familiare possa trovare: è nel liquido amniotico che ha trascorso nove mesi di vita intrauterina ed è qui che ha sviluppato i suoi sensi e si è esercitato nei primi movimenti. Non c’è da sorprendersi quindi se i bambini appena nati mostrino un’innata affinità con l’acqua.

Compito dei genitori è e sarà quello di aiutarli a mantenere questa confidenza con l’acqua, fin dalle prime esperienze in piscina, al mare ma anche a casa nelle normali pratiche quotidiane come il bagnetto o la doccia.

Se è vero che molti bambini sembrano essere dei “pesciolini” che passerebbero la vita a sguazzare, è tuttavia altrettanto vero che altri già a pochi mesi di età inizino a rifiutare il contatto con l’acqua. Che cosa fare?

Anche in questo caso, dovranno essere gli adulti, per primi, a cambiare qualcosa del loro  comportamento affinché il rapporto con l’acqua possa diventare per i propri figli qualcosa di piacevole.

Se i genitori hanno paura dell’acqua e con il loro comportamento trasferiscono panico ai figli tutte le volte che hanno a che fare con bagni al mare o in piscina, come possiamo pensare che i più piccoli  possano godersi il momento in totale serenità? Rifiutarsi di prendere contatto con l’acqua sembra essere la strada migliore per la sopravvivenza, di tutti!

E poi, se i genitori sono invece dei pesci che vivrebbero sempre in acqua ma i loro figli no, meglio evitare  drammatizzazioni del tipo “Da chi avrà preso ? Non è figlio mio! Non c’è da avere paura dell’acqua, il bagno al mare è bellissimo”. Non dimentichiamo che qualsiasi forzatura eccessiva non può che irrigidire il bambino e allontanarlo ancora di più dall’obiettivo.

Che cosa possono fare i genitori per aiutare i figli che hanno paura dell’acqua?  Oggi ne abbiamo parlato con Martina Zipoli, istruttrice FIN.

“Sicuramente il primo contatto con l’acqua ha luogo con il bagnetto domestico; di fondamentale importanza risulta quindi rendere questo momento piacevole, avvalendosi di giochi e inserendolo nella routine giornaliera.”

Altra cosa importante da fare è la seguente: procedere con gradualità. “Se il bambino si mostra molto spaventato nei confronti dell’acqua, è bene proporre un avvicinamento progressivo e rassicuranteAll’inizio invitiamolo a bagnarsi  le mani e i piedi; successivamente sproniamolo a fare giochi che ne incoraggino una certa familiarità come i travasi ad esempio. Al mare tutto questo si traduce nel riempire il secchiello o l’annaffiatoio con l’acquaIn questo modo il bambino comincia a prendere familiarità bagnandosi i piedi e magari in un secondo momento possiamo proporgli di fare anche una breve camminata sul bagnasciuga”.

Prima del bagnetto vero e proprio può esserci uno step intermedio ancora. Molte volte a provocare la sensazione di paura non è solo l’acqua in sé, ma anche il disorientamento creato da un eccessivo spazio intorno, soprattutto al mare, con le onde. “Per questo può essere utile incominciare facendo prendere confidenza al bambino con l’acqua usando una piccola piscina gonfiabile, che può fornirgli l’impressione di tenere le cose “sotto controllo”.

Prima di concludere un ultimo valido consiglio: Mettete da subito, da appena nati, i bambini in piscina. Un corso di acquaticità per piccolissimi non serve per ‘imparare a nuotare’, ma può invece essere utilissimo per acquisire confidenza con l’ambiente liquido in modo da non farsi spaventare in seguito da schizzi, immersioni o ‘bevute’ impreviste. Se questo non è stato fatto e i bambini sono più grandi può essere comunque d’aiuto un corso di nuoto per arrivare preparati alla vacanza al mare”.

Tanti tuffi per tutti!

 

info@eleonoraceccarellipsicologa.it/FB: Sport e famiglia- studio di psicologia e psicoterapia

 

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