L’ ansia da gara: conoscerla per gestirla

 

L’ ansia può diventare una valida alleata, sia nello sport che nella vita di tutti i giorni.

Certo, riuscire a rendere l’ansia nostra “amica”non è per niente facile, anzi! E’ difficile innanzitutto perchè siamo abituati a vederla come qualcosa di esclusivamente negativo, configurandosi come uno tsunami che si presenta con la sua forza distruttiva nelle situazioni per noi più significative. E molte volte si arriva dallo psicologo proprio quando la situazione sfugge oramai da ogni controllo possibile: l’ansia da prestazione è infatti, una tra le problematiche più diffuse tra gli sportivi.

Quando parliamo di ansia da gara comunemente ci riferiamo ad un’attivazione ( o arousal) eccessiva in risposta ad una competizione.

Per ottenere una performance ottimale serve un’attivazione ottimale, ovvero un buon bilanciamento dei livelli d’ansia. Ad esempio, chi affronta prove molto dure, estreme, come un pilota di moto gp, o un atleta di triathlon, non è che ha meno paura o ansia degli altri, ha solo imparato a riconoscere e a gestire i propri sentimenti per spingersi fino al limite senza superarlo. Questo è ciò che ogni sportivo dovrebbe imparare a fare per essere performante

Detto ciò, il primo passo fare per rendere l’ansia una nostra alleata,  è quello di riconoscerla: non dobbiamo scacciare l’ ansia- come se fosse un mostro- ma dobbiamo imparare a comprenderla e….  a gestirla!

Quali sono i segnali riconducibili all’ansia da gara?

 A livello corporeo,  le principali alterazioni fisiologiche osservate negli adulti sono:

  • respirazione superficiale e periferica molto veloce;
  • aumento della frequenza cardiaca;
  • possibili aritmie;
  • aumento della tensione muscolare;
  • aumento della sudorazione, anche in assenza di movimento fisico o temperature troppo elevate;
  • sensazione di pesantezza alla bocca dello stomaco;
  • vomito e diarrea;
  • irrequietezza;

In abbinamento a questi segnali corporei troviamo anche delle  di componenti di tipo cognitivo, come la presenza di immagini e pensieri negativi (es., “la partita andrà male”, “farò una figuraccia”) o ancora la sensazione di essere continuamente osservati, la cui percezione aumenta ancor più il disagio e l’apprensione, alimentando il senso di impotenza nell’ affrontare ciò che sta accadendo.

Nei bambini invece prevale la componente somatica: solitamente è difficile  esprimere a parole l’inquietudine vissuta.  Alla luce di ciò, risulta fondamentale , da parte degli adulti significativi, saper osservare le manifestazioni corporee dei più piccoli e i comportamenti agiti, in modo da intercettare tempestivamente eventuali indicatori di  disagio.

Infine, la sindrome ansiosa è personale: non tutti gli atleti presentano gli stessi sintomi; alcuni manifestano la loro ansia principalmente a livello corporeo, altri invece a livello comportamentale e soggettivo (variabilità interindividuale). In più, lo stesso atleta può manifestare il proprio stato ansioso in modo diverso, ad esempio in competizioni differenti (variabilità intraindividuale).

Queste informazioni sono utili ai fini dell’intervento: non esiste una strategia che funzioni sempre, per qualsiasi persona, e in qualsiasi situazione. Lo psicologo dello sport, infatti, aiuta l’atleta a individuare le strategie più funzionali, tenuto conto del suo peculiare funzionamento emotivo, cognitivo e relazionale e dello specifico contesto sportivo. Non solo, quando protagonisti sono i più giovani, bambini e adolescenti, può essere utile coinvolgere e lavorare con i genitori e con gli allenatori, con gli adulti significativi, che rappresentano degli “osservatori” privilegiati. 

L’ansia non è una malattia e dunque non va curata, soprattutto ricorrendo ai farmaci. Le malattie vanno curate, le emozioni e i sentimenti vanno compresi, gestiti e risolti. Soprattutto quando il livello di ansia aumenta, al punto di essere esagerato rispetto alla prestazione, e questa condizione si cronicizza estendendosi a tutte le competizioni disputate e spesso anche alle sedute di allenamento, risulta fondamentale rivolgersi ad un professionista, ad uno psicologo dello sport. Quando l’ansia da prestazione viene gestita, i risultati positivi non si osservano solo a livello della performance sportiva ma a livello più generale: infatti, si inizia “naturalmente” a vivere meglio.

 

AMMALARSI DI SPORT: QUANDO L’ATTIVITA’ FISICA DIVENTA UN’OSSESSIONE

Lo sport fa bene al corpo e alla mente, “mens sana in corpore sano” dicevano i latiniPuò succedere però  che il fare attività fisica si trasformi in un pensiero costante. In questo caso, si parla di dipendenza da sport: l’esercizio fisico prende il sopravvento e diventa prioritario su tutti gli altri settori della vita: il troppo stroppia! 

 

Quali sono i segnali che ci fanno capire che il limite è stato superato?

Se lo sport diventa “troppo”, la mente si polarizza solo e soltanto sull’ organizzazione della giornata all’insegna dell’esercizio fisico. Un tale forma mentis comporta l’incapacità di concentrarsi su altre attività, essendo il fitness l’unico pensiero ricorrente. Ne consegue, che lo sport, diventa un vero e proprio “chiodo fisso”:  Non si pensa ad altro, tutte le azioni e gesti quotidiani sono finalizzati all’ avere tempo per andare in palestra e praticare sport. L’esercizio fisico prende così il sopravvento su  altri settori importanti della vita, come la famiglia, il lavoro, le amicizie all’ interno dei quali possono insorgere delle difficoltà o problematiche che prima non erano presenti.  

E visto che questo fenomeno è a tutti gli effetti una dipendenza, non dovremmo meravigliarsi se tra i comportamenti tipici, e dunque di allarme, troviamo proprio quelli di chi ha una dipendenza da sostanze. Tra questi, ad esempio, riscontriamo l’aumento graduale della quantità di esercizio per ottenere benessere (fenomeno della tolleranza); il disagio fisico o psicologico in relazione alla riduzione o alla cessazione delle sedute di allenamento, che possono portare ad una vera e propria crisi di astinenza con i suoi sintomi peculiariin mancanza dell’esercizio l’individuo sperimenta effetti negativi quali ansia, irritabilità e problemi legati al sonnoRispetto però alla dipendenza da sostanze, quella da sport spesso non viene riconosciuta socialmente come tale.  Nel   caso   dello   sport   compulsivo   la   dipendenza   che   si   viene   a   creare   è    qualcosa   che   la   stessa   società   reputa   come   salutare   e   positiva.  Questo   rende   ancor   più   difficile   per   la   persona   accorgersi   che   qualcosa   non   va   più   come   prima.

Inoltre, va segnalata la frequente presenza di anoressia e bulimia nervosa associate alla “pratica fisica dipendente” e alimentate dalle stesse motivazioni di controllo del peso e dell’aspetto fisico, soprattutto nelle donne, anche se i casi che riguardano il sesso maschile sono in aumento

 

Come si interviene?

Alla luce di quanto appena descritto, evidenti sono i meccanismi psicologici che alimentano e sorreggono questo tipo di dipendenza. Ne consegue che l’interruzione della pratica sportiva non rappresenta, di per se stessa, la strada che porta alla guarigione, anzi! Laddove è presente anche un disturbo dell’alimentazione, non è raro infatti riscontrare che il tentativo superficiale di sospensione della dipendenza sportiva possa addirittura aggravare la problematica connessa al controllo del cibo.

Un obiettivo importante sarà proprio quello di ritornare ad un esercizio adeguato dal momento che, come sottolineato più volte un’attività fisica moderata è da considerarsi una sana abitudine. Per raggiungere questo obiettivo, che sembra così semplice e lineare, in realtà vanno ricercate e risolte, le cause psicologiche sottostanti la dipendenza; e molto spesso agire da soli, senza l’aiuto di uno psicologo è davvero difficile. Anche perché, come anticipato sopra, la consapevolezza di avere un problema di dipendenza raramente è presente e quando lo è non è detto che incoraggi il cambiamento. E allora? Oltre alle cause psicologiche è necessario rintracciare le cause relazionali che hanno generato il disturbo. Perché una persona arriva a polarizzare tutta la sua vita nell’esercizio fisico? Quali sono state le esperienze relazionali pregresse che lo hanno portato a investire tutto sull’ attività sportiva fino ad arrivare ad esserne dipendente? Molto spesso chi trova rifugio in una dipendenza patologica è stato vittima di un controllo eccessivo da parte delle figure genitoriali, che ha minato lo sviluppo dell’autostima e della fiducia in sé. L’interiorizzazione di vissuti di inadeguatezza accrescono nel bambino e nel futuro adulto la convinzione di non potercela fare da solo e dunque il bisogno di dipendenza. Il dedicarsi in maniera eccessiva ad uno sport risponde a questo bisogno. Non solo, riesce anche ad offrire un appannaggio di indipendenza e l’ illusione di avere il controllo della situazione. Conoscere le dinamiche relazionali che hanno indotto e sostenuto lo sviluppo di una dipendenza è il primo passo per poter cambiare un comportamento disfunzionale e intraprendere la via della guarigione. 

 

Ansia da prestazione: alleata o nemica?

Perché si parla di ansia da prestazione nel mondo dello sport?

Sicuramente molti atleti (e non solo) si saranno confrontati con questo tipo di vissuto nel corso della loro esperienza. Quando si parla di sport, si fa riferimento a una forma di attività fisica che ha diversi obiettivi, tra cui il conseguimento di risultati nel corso di competizioni a tutti i livelli.

La gara rappresenta per un atleta un “esame” che mette in discussione i suoi investimenti fisici e psicologici; alla luce di ciò, egli può avere una risposta d’ansia normale o patologica alla gara. E qui forse qualcuno potrebbe rimanere sorpreso e domandarsi: “Esiste una risposta di ansia normale?” La risposta è affermativa e vediamo perché. Come accennavo prima, l’ansia è un’emozione di cui tutti abbiamo fatto esperienza almeno una volta nella vita. Comunemente pensiamo all’ansia come un ad un fenomeno negativo: questo non è sempre vero, dal momento che l’ansia rappresenta uno “stato di attivazione  fisiologico e comportamentale” (arousal) utile ai fini della sopravvivenza della specie. E’ la nostra mente che fa tutto questo al fine di proteggerci da un’eventuale situazione di pericolo, di stress, qual è appunto la gara.

Quando l’atleta deve compiere una prestazione, il suo organismo deve  infatti attivare una serie di processi fisici e psicologici che gli permettono il raggiungimento del risultato ottimale. Per raggiungere ma soprattutto per mantenere l’ attivazione ottimale, l’atleta ha bisogno di un giusto livello di ansia, una risposta d’ ansia che definiremo “normale”. Ogni atleta ha la sua zona di funzionamento ottimale. 

Quando invece il livello di ansia aumenta, al punto di essere esagerato rispetto alla prestazione che dobbiamo svolgere, non riusciremo più ad ottenere dei buoni risultati. Questa risposta è di tipo “patologico”, non funzionale alla competizione che viene disputata. Questa condizione di ansia esagerata, può verificarsi in una singola gara e rimanere dunque un episodio isolato, oppure può succedere che venga esperita con regolarità; in quest’ultima situazione, l’atleta si trova a vivere in modo preoccupato e allarmato tutte le competizioni che dovrà disputare con conseguenti  effetti negativi sulla performance e più in generale sul benessere fisico, psicologico e sociale.

Come si manifesta l’ansia da prestazione “patologica”? Quali sono i segnali che il nostro corpo manda quando vive questo impasse? Ma soprattutto come si gestisce? Ne parleremo nel prossimo articolo.  Buona lettura!

ESTATE: TEMPO DI ACQUA E DI BAGNI AL MARE. COME AIUTARE I PIÙ PICCOLI AD AVERE UN RAPPORTO SERENO CON L’ACQUA

Per un  neonato l’ambiente acquatico è quanto di più familiare possa trovare: è nel liquido amniotico che ha trascorso nove mesi di vita intrauterina ed è qui che ha sviluppato i suoi sensi e si è esercitato nei primi movimenti. Non c’è da sorprendersi quindi se i bambini appena nati mostrino un’innata affinità con l’acqua.

Compito dei genitori è e sarà quello di aiutarli a mantenere questa confidenza con l’acqua, fin dalle prime esperienze in piscina, al mare ma anche a casa nelle normali pratiche quotidiane come il bagnetto o la doccia.

Se è vero che molti bambini sembrano essere dei “pesciolini” che passerebbero la vita a sguazzare, è tuttavia altrettanto vero che altri già a pochi mesi di età inizino a rifiutare il contatto con l’acqua. Che cosa fare?

Anche in questo caso, dovranno essere gli adulti, per primi, a cambiare qualcosa del loro  comportamento affinché il rapporto con l’acqua possa diventare per i propri figli qualcosa di piacevole.

Se i genitori hanno paura dell’acqua e con il loro comportamento trasferiscono panico ai figli tutte le volte che hanno a che fare con bagni al mare o in piscina, come possiamo pensare che i più piccoli  possano godersi il momento in totale serenità? Rifiutarsi di prendere contatto con l’acqua sembra essere la strada migliore per la sopravvivenza, di tutti!

E poi, se i genitori sono invece dei pesci che vivrebbero sempre in acqua ma i loro figli no, meglio evitare  drammatizzazioni del tipo “Da chi avrà preso ? Non è figlio mio! Non c’è da avere paura dell’acqua, il bagno al mare è bellissimo”. Non dimentichiamo che qualsiasi forzatura eccessiva non può che irrigidire il bambino e allontanarlo ancora di più dall’obiettivo.

Che cosa possono fare i genitori per aiutare i figli che hanno paura dell’acqua?  Oggi ne abbiamo parlato con Martina Zipoli, istruttrice FIN.

“Sicuramente il primo contatto con l’acqua ha luogo con il bagnetto domestico; di fondamentale importanza risulta quindi rendere questo momento piacevole, avvalendosi di giochi e inserendolo nella routine giornaliera.”

Altra cosa importante da fare è la seguente: procedere con gradualità. “Se il bambino si mostra molto spaventato nei confronti dell’acqua, è bene proporre un avvicinamento progressivo e rassicuranteAll’inizio invitiamolo a bagnarsi  le mani e i piedi; successivamente sproniamolo a fare giochi che ne incoraggino una certa familiarità come i travasi ad esempio. Al mare tutto questo si traduce nel riempire il secchiello o l’annaffiatoio con l’acquaIn questo modo il bambino comincia a prendere familiarità bagnandosi i piedi e magari in un secondo momento possiamo proporgli di fare anche una breve camminata sul bagnasciuga”.

Prima del bagnetto vero e proprio può esserci uno step intermedio ancora. Molte volte a provocare la sensazione di paura non è solo l’acqua in sé, ma anche il disorientamento creato da un eccessivo spazio intorno, soprattutto al mare, con le onde. “Per questo può essere utile incominciare facendo prendere confidenza al bambino con l’acqua usando una piccola piscina gonfiabile, che può fornirgli l’impressione di tenere le cose “sotto controllo”.

Prima di concludere un ultimo valido consiglio: Mettete da subito, da appena nati, i bambini in piscina. Un corso di acquaticità per piccolissimi non serve per ‘imparare a nuotare’, ma può invece essere utilissimo per acquisire confidenza con l’ambiente liquido in modo da non farsi spaventare in seguito da schizzi, immersioni o ‘bevute’ impreviste. Se questo non è stato fatto e i bambini sono più grandi può essere comunque d’aiuto un corso di nuoto per arrivare preparati alla vacanza al mare”.

Tanti tuffi per tutti!

 

info@eleonoraceccarellipsicologa.it/FB: Sport e famiglia- studio di psicologia e psicoterapia

 

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