La violenza nello sport: quando protagonisti sono i giovani

 

 

Quando parliamo di violenza nel mondo sportivo sicuramente ciascuno di noi pensa al mondo del calcio, alle risse e agli scontri che avvengono sugli spalti tra tifosi avversari, in occasione delle partite di campionato di serie A o della Champions League. Purtroppo i recenti fatti di cronaca offrono uno spaccato più ampio del fenomeno. Innanzitutto protagoniste sono le squadre minori, le squadre di paese, se così le possiamo definire,  dove i padri di famiglia – qualche volta anche le madri- sbraitano con toni oltraggiosi verso l’arbitro o l’allenatore mettendo in discussione il loro operato, o peggio ancora offendono verbalmente i giocatori della squadra avversaria che potrebbero essere i loro figli. In questi campi da calcio la violenza non viene agita solo a livello verbale ma anche a livello fisico: proprio qualche settimana fa, in una squadra giovanile della provincia di Arezzo, un padre ha picchiato l’allenatore perché il figlio ha giocato poco. Lo sport  è un’agenzia educativa che può e deve offrire valori nobili, ma se gli adulti che dovrebbero sostenere questo obiettivo ed essere dei punti di riferimento si comportano così, che cosa ci aspettiamo dai piccoli sportivi? La violenza genera violenza: se un genitore agisce in maniera violenta “autorizza e legittima” il figlio a fare altrettanto. Non c’è da meravigliarsi allora se gli episodi di bullismo nel mondo sportivo sono in crescita.

Spetta a noi adulti dare il buon esempio: i più giovani apprendono dal nostro comportamento. E quando protagonisti sono i bambini della scuola calcio, o comunque i piccoli atleti di una qualsiasi disciplina sportiva, non dobbiamo assolutamente dimenticarci che l’obiettivo primario di tutti deve essere quello di farli divertire in un ambiente sereno e sano. Probabilmente questo obiettivo è noto a tutti i genitori, anche se purtroppo conseguito e sostenuto da pochi. La domanda sorge spontanea, come mai? Troppo spesso capita di proiettare sui figli gli obiettivi che non abbiamo saputo raggiungere nel tentativo di una rivalsa personale, caricando così i più piccoli di pressioni e aspettative che li tengono lontani dal divertimento e da una crescita sana. Il peso di questo stress porta i bambini a lasciare troppo precocemente il mondo sportivo e a starne lontani anche per anni; le conseguenze dell’abbandono sportivo non le si osservano solo sul piano fisico ma anche (e soprattutto) sul piano psicologico: per molti bambini un’esperienza così emotivamente pressante è a tutti gli effetti un trauma. Interpellare lo psicologo quando il danno è stato fatto è fondamentale, anche se il suo coinvolgimento sarebbe prezioso precocemente, per prevenire l’insorgenza degli episodi di violenza degli adulti sul campo. La presenza di uno psicologo dello sport che lavora a fianco dell’allenatore, della società e delle famiglie rappresenta una risorsa, un riferimento indispensabile che offre loro supporto e assistenza al fine di garantire un sano sviluppo fisico, psicologico e sociale di bambini e ragazzi. Deve essere una figura che fa parte integrante dell’organico e presentata a tutti come tale: solo così si può creare un circolo virtuoso di fiducia reciproca, fondamentale per affidarsi e farsi aiutare. Troppo spesso gli psicologi vengono chiamati a contenere gli effetti del danno, inserendosi come “ospiti  indesiderati” in un contesto relazionale che li vive più come un pericolo che come un aiuto concreto. Purtroppo il peso dei pregiudizi rispetto alla categoria è ancora schiacciante. Ma se vogliamo promuovere e garantire il benessere dei nostri piccoli sportivi, non possiamo e non dobbiamo essere vittime delle nostre paure, dobbiamo vincere il pregiudizio e affidarci alle mani di un esperto che si occupa dei giovani e delle loro famiglie.

Dott. ssa Eleonora Ceccarelli 

Psicologo dello sport o mental coach? Assolutamente il primo. Il lavoro sulla mente è una cosa seria.

Scrivo questo articolo prendendo spunto dalla mia esperienza sul campo- e in alcune occasioni fuori dal contesto sportivo- con l’obiettivo di fare chiarezza sulla professione di psicologo e di tutelarla. L’ultima perla inerente la figura dello “strizzacervelli” risale a qualche giorno fa, in gelateria, dove intraprendo una chiacchierata con un’amica di una mia parente che di fronte alla mia presentazione professionale mi risponde di essere mental coach e taglia corto. Purtroppo, nel corso degli ultimi anni, il mental coach in ambito sportivo è diventata una figura in forte espansione e aumentano gli allenatori e gli sportivi che ci si affidano in modo da preparare anche mentalmente ed emotivamente gli atleti alle sfide sportive. Anche allenatori famosi, soprattutto in ambito calcistico come riportano le testate giornalistiche sportive più diffuse, si sono affidati a questa figura professionale per migliorare le prestazioni dei propri giocatori. Probabilmente il mio “purtroppo” all’ inizio del discorso vi ha già fatto intuire il mio punto di vista. Il mental coach per fare il suo lavoro si avvale di una formazione, dove acquisisce degli strumenti e delle tecniche che aiutano i propri clienti/atleti a tirare fuori le proprie risorse.  E’ sufficiente avere partecipato a un corso di pochi giorni o essere stato un atleta o avere una laurea in qualsiasi ambito; non è previsto alcun tipo di formazione universitaria specifica riconosciuta e può essere svolta da chiunque decida per motivi personali di intraprendere questo lavoro nello sport.
Persone di questo tipo sono sempre esistite in ogni professione, dagli esperti in benessere che propongono terapie mediche, ai personal trainer non laureati in scienze motorie, a chi si propone come allenatore solo perché ha svolto un determinato sport per molti anni. Ma siamo sicuri che tutto questo sia sinonimo di qualità ma soprattutto una tutela per il benessere e la salute delle persone?
E qui aggiungo un altro purtroppo. In questi ultimi anni, il termine “mental coach” è diventato un’espressione piuttosto diffusa per connotare una persona esperta nell’ allenamento delle abilità mentali. Ma prima di riempirsi la bocca di questo termine qualcuno sa chi è cosa fa il mental coach? E se questa parola può essere un sinonimo a tutti gli effetti di psicologo?
Lo psicologo, dopo un percorso che lo ha portato alla laurea magistrale, al tirocinio di un anno, all’esame di Stato e all’ iscrizione all’ ordine degli psicologi, è il professionista che è legalmente abilitato a fornire questo tipo di prestazioni. Esiste un albo regionale dove è possibile verificare l’iscrizione del professionista che, tra le altre cose, deve rispettare un codice deontologico.
La psicologia dello sport è la disciplina che nell’ ambito delle scienze dello sport e della psicologia, rappresenta il riferimento teorico e applicativo per l’esercizio di questa professione. Per lavorare in questo ambitolo psicologo deve formarsi ulteriormente attraverso corsi di perfezionamento o master che lo abilitano al lavoro con gli sportivi.
Mental coach e psicologo non sono due professioni equiparabili, sono due figure differenti, con obiettivi, strumenti ma soprattutto responsabilità diverse.
Non affidatevi a chiunque, prendete tempo e approfondite la formazione del professionista che avete individuato.
Fonti:
 https://www.ordinepsicologitoscana.it/gruppi-lavoro-articolo.php?idp=4089

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