Essere genitori sportivi: missione possibile! Il ruolo della famiglia nello sport

Quando parliamo di bambini e sport, non possiamo fare a meno di pensare ai genitori e al loro prezioso contributo nella crescita sportiva dei figli. E’ all’ interno del sistema familiare che i più piccoli imparano a fronteggiare le diverse sfide che la vita propone loro: i genitori sono per i figli una guida, un riferimento imprescindibile per uno sviluppo sano. Sentirsi sostenuti e incoraggiati dalla propria famiglia promuove nei bambini un atteggiamento di fiducia che permette loro di buttarsi e sperimentarsi nelle varie situazioni quotidiane. Anche cimentarsi in una disciplina sportiva è un’esperienza che dipende dalla propria famiglia: è per mezzo di quest’ultima che i più piccoli arrivano a fare sport ma soprattutto che continuano a praticarlo negli anni. E visto che lo sport, dopo la scuola, è il luogo in cui i più giovani passano gran parte del loro tempo, come possono i genitori motivare e supportare i propri figli affinché l’esperienza sportiva possa essere positiva e formativa? Genitori sportivi non si nasce ma lo si può diventare. In primo luogo, è fondamentale che il genitore svolga un ruolo di sostegno senza però sovrapporsi o peggio ancora sostituirsi alla figura dell’allenatore poiché quest’ultimo, nel contesto sportivo, rappresenta un modello efficace. Se i genitori in primis non ne riconoscono il ruolo, come possiamo pensare che lo facciano i figli? I bambini imparano dal comportamento di mamma e babbo: se quest’ultimi sono capaci di affidarsi all’allenatore, riconoscendone il valore e rispettandone le scelte sportive, sicuramente anche i figli riusciranno a fare altrettanto: la fiducia genera fiducia. Non solo. Il fatto di “delegare” o meglio condividere con un altro adulto significativo, qual è l’allenatore, l’educazione dei propri piccoli, accresce in quest’ultimi la percezione di autoefficacia e sostiene lo sviluppo dell’autostima, poiché i bambini apprendono che possono farcela anche senza l’aiuto diretto dei genitori, seppur consapevoli di poter contare sul lor appoggio ogni volta che ce ne sia bisogno. E sempre partendo dal presupposto che i giovanissimi imparano per imitazione e quindi dal comportamento degli adulti, non bisogna assolutamente dimenticarsi di offrire loro il buon esempio: anche se durante l’allenamento o la partita i bambini sono in carico all’ allenatore, i genitori restano comunque le loro guide principali. Comportarsi in maniera violenta fuori dal campo, autorizza e legittima i più piccoli a fare altrettanto. Purtroppo sono sempre più numerosi gli articoli di cronaca in cui padri di famiglia – qualche volta anche madri- sbraitano con toni oltraggiosi verso l’arbitro o l’allenatore mettendo in discussione il loro operato, o peggio ancora offendono verbalmente i giocatori della squadra avversaria che potrebbero essere i loro figli. La domanda sorge spontanea: cosa muove tali comportamenti? E’ solo la delega di responsabilità a fare da detonatore? Probabilmente no. Troppo spesso capita di proiettare sui figli gli obiettivi che non sono stati raggiunti, nel tentativo di una rivalsa personale, caricando così i più piccoli di pressioni e aspettative che li tengono lontani dal divertimento e da una crescita sana. Infatti, questa situazione espone i bambini ad un forte stress che può condurli ad un abbandono precoce del mondo sportivo, prendendone le distanze anche per molti anni. Quando parliamo di piccoli atleti l’obiettivo primario deve essere quello di farli divertire in un ambiente sereno e sano. Per ottenere questo, ancora una volta, fondamentali sono gli adulti significativi che circondano il giovane sportivo. Se questi da una parte suggeriscono di divertirsi, ma poi si arrabbiano quando il risultato atteso non viene raggiunto, allora trasmettono valori contraddittori e negativi.
Naturalmente desiderare che un figlio arrivi ad ottenere ottimi risultati è normale, ma questo non è sempre sinonimo di vittoria: anche una sconfitta può essere un risultato positivo se comunque un figlio si è impegnato a dare il massimo e si è divertito. Sono gli adulti che devono guidare i più giovani verso una crescita sana. Eloquenti in questo caso sono le parole di Madre Teresa di Calcutta: “La parola convince, ma l’esempio trascina. Non ti preoccupare se i tuoi figli non ti ascoltano, ti osservano tutto il giorno”.

P….come positivo! L’importanza del pensiero positivo nello sport

Nello sport si alternano momenti di vittoria e di successo a momenti di sconfitta e di difficoltà. Fondamentale è averne consapevolezza in modo da non perdere la stima e la fiducia nelle proprie capacità soprattutto di fronte alle sfide e alle situazioni difficili che la vita propone.

In psicologia dello sport esiste una tecnica, il self-talk, ovvero il dialogo interno che si focalizza su pensieri positivi (incoraggiamenti, brevi istruzioni, parole chiave e frasi stimolanti), da ripetere a se stessi, mentalmente o ad alta voce, al fine di sostituire eventuali pensieri negativi che potrebbero compromettere la performance.

Se uno sportivo vuole ottenere dei buoni risultati deve avere un modo di pensare positivo e dal momento che il self talk è il modo in cui un atleta parla a se stesso, esso è in grado di dirigere le azioni dello sportivo; alla luce di ciò, punto di partenza imprescindibile è individuare obiettivi che siano raggiungibili per l’atleta in modo da accrescerne l’ autostima.

L’autostima è frutto del confronto che lo sportivo fa tra gli obiettivi e le sue abilità: per poter raggiungere un obiettivo bisogna credere profondamente di avere le capacità per riuscirci.  In questo modo si crea un circolo virtuoso per cui l’atleta che ha fiducia nelle proprie abilità, tende a perseverare     nell’ impegno anche quando le cose non stanno andando secondo i progetti, a mostrare entusiasmo e ad assumersi la sua parte di responsabilità se il successo viene a mancare.

Facciamo un esempio.

Un atleta che durante una gara sviluppa pensieri negativi del tipo “sono stanco non arriverò alla fine della gara” oppure  “Non ce la farò mai” rischia di alimentare la così detta “profezia che si autoavvera”. Cioè si metterà mentalmente e fisicamente nelle condizioni di perdere il ritmo e le strategie adeguate a ottenere il massimo da quella competizione. Viceversa un atleta abituato a motivarsi attraverso un dialogo interno positivo del tipo “l’avversario è forte ma ho le risorse per poterlo fronteggiare”, si metterà nelle condizioni psicologiche di gestire la gara nel migliore dei modi possibili.

Praticamente tutto è migliorabile per l’atleta che crede in se stesso. Quest’ultimo vive i momenti di crisi come un’ opportunità: le difficoltà non sono viste come il risultato di un limite personale, ma come una possibilità per individuare le proprie potenzialità e le aree di miglioramento. Al contrario, l’atleta che resta impantanato in uno stato di negatività assoluto, rimane cieco nei confronti dei propri punti di forza, utilizzando così le proprie risorse in maniera inadeguata.

La mente può essere allenata a pensare positivamente e ad avere fiducia nelle proprie capacità.

Ascoltare il proprio dialogo interno vuol dire avere consapevolezza di sé, dei pensieri e del modo in cui essi influenzano le nostre azioni e le nostre scelte. Ogni resistenza, ogni blocco che impediscono il raggiungimento degli obiettivi dell’atleta e/o della squadra va analizzato, compreso e poi trasformato.

La pratica costante di questa tecnica, dal momento che accresce la consapevolezza dello sportivo, permette a quest’ultimo di abbandonare gli automatismi negativi che si innescano durante le gare (e spesso anche in allenamento) e di modificare in modo costruttivo le strategie attuate in occasione di una competizione, rendendole efficaci al fine del risultato finale.

 

 

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