I bambini? Vanno lodati ma con parsimonia

Chi non ha bisogno di riconoscimenti, scagli la prima pietra!

Tutti ne abbiamo bisogno: noi adulti ma anche (e soprattutto!) i bambini. Si tratta di un bisogno fondamentale per la nostra salute fisica e mentale, esattamente come il bisogno di nutrirsi o di dormire.

L’adulto, genitore, allenatore o insegnante, che attribuisce riconoscimenti positivi potenzia nel bambino  la disponibilità ad ascoltare e ad apprendere. Non solo, comunica fiducia e sicurezza al piccolo rispetto alle sue capacità. Attenzione però: affinché le lodi siano funzionali  allo sviluppo psicologico  di un bambino, devono essere fondate,  riferite cioè ad un fatto reale e concreto. Facciamo un paio di esempi. Esempio uno: “Hai fatto bene a presentare al professore i tuoi dubbi sulla gita. Sei stato davvero sincero e l’insegnante lo ha apprezzato. Esempio due: “Complimenti per la gara che hai disputato, sei stato molto bravo. Era una competizione difficile e ti sei dimostrato determinato fino alla fine nel raggiungimento degli obiettivi che ti eri prefissato. Ti sei impegnato molto quest’anno, organizzandoti diligentemente con la scuola e con gli impegni del tempo libero. Te lo sei meritato”.

In questi casi, il riconoscimento dell’adulto riguarda un’ azione specifica agita dal minore: così facendo il genitore/allenatore sottolinea che quel comportamento è ritenuto positivo e dunque il bambino si sente legittimato e motivato a consolidarlo e a ripeterlo in occasioni successive. Nono solo. Il fatto che sia fatto riferimento all’ impegno impiegato per ottenere il risultato è importante: lavorare duramente per raggiungere un obiettivo è una preziosa spinta motivazionale che va  sicuramente sostenuta e incoraggiata. Spesso il fatto di sforzarsi e di impegnarsi viene vissuto come qualcosa di meno importante dell’essere intelligenti. Ma a scuola,  nello sport e in generale nella vita, ogni traguardo da raggiungere si prefigura come una sfida che richiede impegno; per questo motivo, meglio lodare i bambini per le qualità che possono controllare (come l’impegno appunto), affinché considerino le nuove sfide come opportunità per apprendere ma soprattutto per andare avanti nel percorso di crescita, con la consapevolezza che si possa sempre migliorare.

Espressioni di questo tipo invece: ”Sei eccezionale!”, “Quanto sei intelligente!”, Come sei brava”, “Sei davvero un campione” sono lodi non riconducibili ad un’ azione ben precisa; il rischio è quello  di produrre una generica “sviolinata”  che ha effetti negativi sullo sviluppo della personalità  del minore e  sulla relazione tra adulto e bambino.

Quando noi adulti diciamo qualcosa a un bambino indirettamente diciamo qualcosa su di lui. Ogni messaggio che gli viene inviato quindi gli comunica cosa pensiamo di lui e gradualmente il piccolo si costruisce un’immagine di come lo percepiamo come persona. Per questo motivo, qualsiasi comunicazione ha un impatto non solo sull’interlocutore ma anche sulla relazione che abbiamo con lui. Ogni volta che parliamo con i più piccoli, bambini ma anche adolescenti,  aggiungiamo un altro pezzo al puzzle che stiamo costruendo insieme.

I più piccoli hanno bisogno della nostra approvazione per diventare adulti. Non dobbiamo privarli dei nostri elogi per quello che hanno fatto se lo hanno fatto con passione e impegno. In questo caso la lode rappresenta un incoraggiamento: quando abbiamo lavorato duro e fatto un buon lavoro ci fa piacere che gli altri riconoscano e apprezzino il nostro impegno.

Valorizzare  il risultato o il talento , non accresce l’autostima, tutt’altro;  in queste situazioni è stato osservato che i bambini  hanno difficoltà a tollerare le frustrazioni legate agli insuccessi che nella vita possono  inevitabilmente presentarsi;  inoltre,  manifestano maggiore insicurezza  di fronte alle difficoltà e sono  tendenzialmente  più resistenti a mettersi in gioco per migliorare i propri punti deboli.

Insomma, le lodi servono ma ci vuole misura nel complimentarsi con i propri figli per i piccoli o grandi successi quotidiani.

 

L’agonismo fa male?

“L’agonismo fa male?” Ultimamente, questa domanda mi viene posta da tanti genitori. Dietro questo interrogativo molto spesso riscontro paura ma anche una cattiva informazione; così ho pensato di estendere la riflessione nel tentativo di fare chiarezza ma soprattutto di rispondere ai dubbi e alle perplessità che i genitori (e di riflesso i figli) vivono quando il percorso agonistico viene anche solo immaginato.

Negli ultimi anni l’aspetto agonistico dello sport è diventato sempre più rilevante nelle diverse discipline sportive e proposto sempre più precocemente, coinvolgendo bambini e preadolescenti. La “Carta dei Diritti del Bambino nello Sport” afferma che il bambino ha diritto di divertirsi e a giocare come un bambino. È infatti impossibile pensare un’attività sportiva che prescinda dal gioco. Bisognerebbe anzi parlare sempre di “gioco sportivo” quando si parla dell’infanzia: i bambini lavorano e apprendono divertendosi. Purtroppo indirizzare i più piccoli verso un agonismo precoce fa perdere di vista l’importanza della componente ludica a favore di una specializzazione tecnica che non è per tutti: nella stragrande maggioranza dei casi il risultato che si ottiene è quello di favorire un abbandono precoce. La responsabilità di questo fenomeno è da attribuire sia alle società, il cui prestigio è condizionato dalle vittorie dei propri atleti, sia alle famiglie che hanno sempre maggiori aspettative di affermazione e di fama nei confronti dei figli. Visto in questi termini l’agonismo sembra sinonimo di successo. Proponendo e imponendo ai più giovani modelli irraggiungibili, li si espone a delusioni e umiliazioni, che alimentano insicurezza e scarsa stima di sé e non di rado anche lo sviluppo di disturbi psicologici soprattutto inerenti la sfera ansiosa e a livello psicosomatico. È allora non c’è da meravigliarsi se la risposta da parte dei giovani atleti è quella di lasciare prematuramente lo sport. Non solo, esperienze di questo tipo per molti bambini sono dei veri e propri traumi i cui effetti hanno ripercussioni anche nel loro sviluppo futuro.

Ma siamo sicuri che l’agonismo sia solo questo? Se così fosse, la risposta all’interrogativo posto dai genitori con cui ho parlato non potrebbe essere che affermativa. L’agonismo non è solo vittorie e successo, è un percorso che fa parte del fare sport: si può scegliere di farlo oppure no ma nel momento in cui lo si intraprende bisogna arrivare preparati. Molto spesso le società non danno importanza ad accompagnare e a sostenere le famiglie nel percorso verso l’agonismo; sono loro stesse a proporlo in maniera confusiva e limitante. Per questo sarebbe importante farsi aiutare da uno psicologo che lavora in ambito sportivo attraverso corsi di informazione e formazione.

L’attività agonistica è importante nella crescita di un minore, a patto che sia sostenuta e ben gestita dall’allenatore e dalla società, ma anche dai genitori.

Non bisogna avere fretta di “creare” dei campioni, di mettere i più giovani a competere per affermarsi come i migliori; se il bambino non si diverte in quello che fa, abbandona lo sport. I momenti di confronto sono importanti per la crescita e lo sviluppo della personalità del minore a patto che non siano improntati alla ricerca di un risultato a tutti i costi, quanto piuttosto a permettere di acquisire sicurezza e maggior autostima. Questo perché il bambino piccolo non è ancora in grado di dare il giusto valore alla sconfitta: per il giovane atleta tutto è riconducibile a se stesso e al suo valore personale. Solo quando il bambino sarà capace di associare alla sconfitta un’azione eseguita allora l’agonismo può essere vissuto come nell’adulto. Il vero significato dello sport, soprattutto nei più giovani, deve essere considerato non in funzione della vittoria e di un eventuale record da battere, ma come una condizione formativa in grado di sviluppare al meglio le potenzialità psicofisiche e le relazioni sociali. A questo vanno educati i più piccoli m anche i “più grandi”, allenatori e genitori.

Inevitabilmente l’attività agonistica prevede delle rinunce: invita i più piccoli al massimo impegno, a sviluppare un forte senso del dovere e di responsabilità  e a trascorrere molte ore della giornata ad allenarsi, trascurando attività e interessi normali per la propria età. Questo sacrifico sarà possibile se il piccolo sportivo si allena un in ambiente familiare e accogliente, dove gli adulti di riferimento lo sostengono e lo sanno apprezzare per il suo valore e non in funzione delle vittorie che ottiene. Questo è il fondamento imprescindibile affinché un giovane atleta possa crescere nello sport e con lo sport, trasformando il proprio sacrificio nella spinta motivazionale che lo induce a ricercare il confronto con l’avversario per verificare le proprie capacità e la validità del proprio allenamento.

In questo modo l’agonismo ha realizzato il suo vero obiettivo educativo e formativo.

Buon allenamento a tutti!

 

Allenatori non si nasce, si diventa! Le prime esperienze sul campo: rischi e potenzialità

Molte volte, nella mia attività di formatrice in ambito sportivo, mi sono trovata a tenere lezioni ad aspiranti allenatori. Queste docenze sono per me molto importanti perché permettono di coniugare le mie due grandi passioni: lo sport e la psicologia. Non solo. La mia esperienza di atleta ma anche di tecnico mi consentono di avere un occhio “allenato” nei confronti di tutte quelle situazioni potenzialmente a rischio verso le quali un aspirante istruttore può imbattersi e che dunque necessitano di approfondimento. Andiamo a esaminarle. Come già sottolineato, l’allenatore, insieme ai genitori e agli insegnanti, rappresenta un pilastro fondamentale nell’educazione e nello sviluppo di bambini e ragazzi. Per garantire ciò, l’istruttore deve offrire ai piccoli atleti un contesto dove possono divertirsi. Questo obiettivo può risultare ovvio, quasi scontato, ma di fatto spesso viene dimenticato. Come mai? La prima riflessione che dobbiamo porci è questa: che cosa spinge una persona a decidere di diventare allenatore? Nella stragrande maggioranza dei casi, mi confronto con interlocutori molto giovani, che arrivano a intraprendere il percorso formativo alla fine della loro carriera da atleti, mossi dall’idea di guadagnare qualche soldo continuando a coltivare la loro grande passione.  Fino a qui a tutto bene, anzi la passione è una virtù che rappresenta un ottimo punto di partenza nel mestiere di allenatore. Il problema semmai è un altro: freschi della loro esperienza agonistica, molti istruttori rischiano di impostare l’allenamento su aspetti troppo tecnici, tralasciando il gioco e il divertimento. Quando un bambino arriva a fare uno sport non sappiamo qual è la sua motivazione: se vogliamo che quel piccolo atleta si appassioni e rimanga a praticare la disciplina scelta a lungo, dobbiamo offrirgli un ambiente dove stia bene, dove i suoi bisogni vengano soddisfatti. Il divertimento è senza dubbio il bisogno che accomuna tutti i bambini e, come sottolinea la Carta dei Diritti dell’Infanzia, deve essere assolutamente garantito. Per usare le parole di un grande atleta*“C’è un circolo virtuoso nello sport: più ti diverti più ti alleni; più ti alleni più migliori; più migliori più ti diverti”. Questo deve diventare in assoluto il mantra di tutti gli allenatori, di coloro che lavoro con i bambini ma anche di chi si occupa di atleti più adulti: divertirsi è sano e fondamentale a tutte le età. Quando il divertimento non viene garantito, il rischio a cui si espongono i più giovani è l’abbandono sportivo. Gli effetti benefici dell’attività motoria a livello fisico, psicologico e sociale sono oggi abbondantemente dimostrati: allora perché privare i più piccoli di questa possibilità? Quando si parla di minori, la responsabilità del loro benessere è nelle mani degli adulti che sono per loro significativi. Per chi fa sport, l’allenatore è uno di questi. Come si fa dunque a essere dei buoni tecnici e quindi a garantire un ambiente idoneo alla crescita sportiva (e non solo) dei più piccoli? Innanzitutto è opportuno usare un linguaggio semplice, facilmente comprensibile e adatto all’età dei bambini che abbiamo di fronte ma soprattutto è fondamentale servirsi e proporre esempi concreti, far vedere come un esercizio va svolto e dare loro la possibilità di provarlo. Tutti questi accorgimenti mantengono viva l’attenzione, aiutano la memoria e dunque facilitano il processo di apprendimento. Anche variare la presentazione di uno stesso esercizio e supportarne la spiegazione avvalendosi di elementi ludici sono strategie che tengono lontana la noia, incrementano la capacità di concentrazione degli atleti e forniscono un forte impulso motivazionale.

Infine altro accorgimento utile su un piano metodologico è quello di coinvolgere attivamente i giovani atleti nell’allenamento: in che modo? Lasciando loro del tempo per esprimersi liberamente, permettendo che a turno possano scegliere un gioco da fare in gruppo, oppure coinvolgendoli come assistenti, magari nella spiegazione di un esercizio o nel fornire un esempio concreto agli altri. La partecipazione attiva dei più piccoli all’interno del gruppo favorisce lo sviluppo del senso di appartenenza, requisito fondamentale per prevenire l’abbandono sportivo e sostenere la crescita di un atleta all’interno della società; inoltre, promuove lo sviluppo dell’autostima e della fiducia in se stessi, caratteristiche che sono alla base della salute mentale in età evolutiva e la chiave del benessere psicologico in età adulta.

Per concludere, saper insegnare con efficacia, saper interessare, incuriosire e coinvolgere i propri atleti è una vera arte che non bisogna affatto sottovalutare, anzi! E’ fondamentale coltivarla con amore, impegno e serietà. Buon lavoro!

                                                                                                                                

 

*Pancho Gonzales

AMMALARSI DI SPORT: QUANDO L’ATTIVITA’ FISICA DIVENTA UN’OSSESSIONE

Fino ad oggi, gli articoli pubblicati sul blog hanno esaltato gli innumerevoli benefici dello sport sia su un piano fisico ma anche (e soprattutto!) a livello psicologico e relazionale.

Il fitness fa bene al corpo e alla mente, “mens sana in corpore sano” dicevano i latini. Può succedere però  che il fare attività fisica si trasformi in un pensiero costante. In questo caso, si parla di dipendenza da sport: l’esercizio fisico prende il sopravvento e diventa prioritario su tutti gli altri settori della vita: il troppo stroppia! 

 

Quali sono i segnali che ci fanno capire che il limite è stato superato?

Se lo sport diventa “troppo”, la mente si polarizza solo e soltanto sull’organizzazione della giornata all’insegna dell’esercizio fisico. Un tale forma mentis comporta l’incapacità di concentrarsi su altre attività, essendo il fitness l’unico pensiero ricorrente. Ne consegue, che lo sport, divenendo un vero e proprio “chiodo fisso”, finisce per anteporsi ad altri settori importanti della vita, come la famiglia, il lavoro, all’interno dei quali possono insorgere delle difficoltà o problematiche che prima non erano presenti.

E visto che questo fenomeno è a tutti gli effetti una dipendenza, non dovremmo meravigliarsi se tra i comportamenti tipici, e dunque di allarme, troviamo proprio quelli di chi ha una dipendenza da sostanze. Tra questi, ad esempio, riscontriamo l’aumento graduale della quantità di esercizio per ottenere benessere (fenomeno della tolleranza); il disagio fisico o psicologico in relazione alla riduzione o alla cessazione delle sedute di allenamento, che possono portare ad una vera e propria crisi di astinenza con i suoi sintomi peculiari: in mancanza dell’esercizio l’individuo sperimenta effetti negativi quali ansia, irritabilità e problemi legati al sonno. Rispetto però alla dipendenza da sostanze, quella da sport spesso non viene riconosciuta socialmente come tale.  Nel   caso   dello   sport   compulsivo   la   dipendenza   che   si   viene   a   creare   è    qualcosa   che   la   stessa   società   reputa   come   salutare   e   positiva.  Questo   rende   ancor   più   difficile   per   la   persona   accorgersi   che   qualcosa   non   va   più   come   prima.

Inoltre, va segnalata la frequente presenza di anoressia e bulimia nervosa associate alla “pratica fisica dipendente” e alimentate dalle stesse motivazioni di controllo del peso e dell’aspetto fisico, soprattutto nelle donne, anche se i casi che riguardano il sesso maschile sono in aumento

 

Come si interviene?

Alla luce di quanto appena descritto, evidenti sono i meccanismi psicologici che alimentano e sorreggono questo tipo di dipendenza. Ne consegue che l’interruzione della pratica sportiva non rappresenta, di per se stessa, la strada che porta alla guarigione, anzi! Laddove è presente anche un disturbo dell’alimentazione, non è raro infatti riscontrare che il tentativo superficiale di sospensione della dipendenza sportiva possa addirittura aggravare la problematica connessa al controllo del cibo.

Un obiettivo importante sarà proprio quello di ritornare ad un esercizio adeguato dal momento che, come sottolineato più volte un’attività fisica moderata è da considerarsi una sana abitudine. Per raggiungere questo obiettivo, che sembra così semplice e lineare, in realtà vanno ricercate e risolte, le cause psicologiche sottostanti la dipendenza; e molto spesso agire da soli, senza l’aiuto di uno psicologo è davvero difficile. Anche perché, come anticipato sopra, la consapevolezza di avere un problema di dipendenza raramente è presente e quando lo è non è detto che incoraggi il cambiamento. E allora? Oltre alle cause psicologiche è necessario rintracciare le cause relazionali che hanno generato il disturbo. Perché una persona arriva a polarizzare tutta la sua vita nell’esercizio fisico? Quali sono state le esperienze relazionali pregresse che lo hanno portato a investire tutto sull’ attività sportiva fino ad arrivare ad esserne dipendente? Molto spesso chi trova rifugio in una dipendenza patologica è stato vittima di un controllo eccessivo da parte delle figure genitoriali, che ha minato lo sviluppo dell’autostima e della fiducia in sé. L’interiorizzazione di vissuti di inadeguatezza accrescono nel bambino e nel futuro adulto la convinzione di non potercela fare da solo e dunque il bisogno di dipendenza. Il dedicarsi in maniera eccessiva ad uno sport risponde a questo bisogno. Non solo, riesce anche ad offrire un appannaggio di indipendenza e l’ illusione di avere il controllo della situazione. Conoscere le dinamiche relazionali che hanno indotto e sostenuto lo sviluppo di una dipendenza è il primo passo per poter cambiare un comportamento disfunzionale e intraprendere la via della guarigione. 

 

 

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