C’era una volta il Blue Whale
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Nelle ultime settimane i media non parlano di altro: ”Blue Whale, è allarme tra gli adolescenti”.
Che cos’è questo fenomeno così preoccupante tanto da aver seminato il panico sul web e non solo?
Blue Whale, comunemente chiamata Balena Blu, sarebbe un gioco online in cui i partecipanti devono sottoporsi, nell’arco di 50 giorni, a prove sempre più pericolose che culminano nel suicidio. Le prove vengono supervisionate da un “curatore” che fornisce man mano le istruzioni del gioco.
Il nome si ispirerebbe all’uso delle balene di spiaggiarsi e morire senza apparente motivo.
Ma il panico, si sa, non rende lucidi e così il terrore diffuso dai numerosi articoli e video propagati in maniera capillare nel nostro Paese ha spinto a classificare ogni condotta autolesiva, ogni caso di tentato suicidio o suicidio, e più in generale ogni possibile forma di disagio giovanile sotto l’etichetta del Blue Whale.
Regna il caos.
Di che cosa stiamo parlando quando facciamo riferimento al fenomeno del Blue Whale? Parliamo di condotte autolesive o di suicidio? O addirittura di cyberbullismo? Forse la domanda da porsi è un’altra: siamo sicuri che il disagio adolescenziale esista solo da qualche settimana con l’avvento impetuoso del Blue Whale?
La domanda vuole e deve essere provocatoria: qualche anno fa c’erano gli “Emo” a preoccupare l’opinione pubblica adesso ci sono i seguaci del Blue Whale. E visto che la storia si ripete, probabilmente in futuro sarà protagonista un nuovo fenomeno adolescenziale; ma al di là delle etichette, il disagio giovanile non è certo l’ultima scoperta in campo scientifico, anzi si tratta di un evento “fisiologico”, non eliminabile, ma costitutivo dell’adolescenza, testimone di quella fase di transizione che porta all’età adulta. Questo non vuol dire osservare passivamente gli episodi che vedono protagonisti i minori e il loro malessere perché “Tanto è questa la strada di crescita che devono percorrere”; o, peggio ancora, raccontarci che tutto questo accade perché esiste qualcuno che ordina ai nostri ragazzi di soffrire, riducendo così il problema alla cattura dei fantasmagorici “curatori”. Se poi ci aggiungiamo il fatto che le ultimissime notizie sul web parlano di bufala, di mancanza di prove certe sull’esistenza stessa di questo pericoloso gioco, allora siamo pronti a mandare in vacanza il disagio giovanile e a non pensarci più fino alla prossima allerta mediatica.
Il pericolo più grande oggi è proprio questo: cercare di dare un nome al malessere adolescenziale e trovare un capro espiatorio a cui dare la colpa; tutte manovre tese a creare distanza dal problema reale alleggerendoci dalle nostre responsabilità. Non a caso in televisione o sui giornali viene richiesta soprattutto l’opinione della polizia postale, come se il fenomeno fosse riducibile solo ai problemi connessi alla rete e meno spesso quella di psicologi o educatori, esperti nell’ambito dell’adolescenza e delle sue difficoltà.
Il disagio e l’angoscia di diventare adulti attraversa la vita di tutti gli adolescenti ma per molti può diventare un periodo davvero difficile, carico di sofferenza. Ricorrere ai tagli o ai tentativi di suicidio rappresenta una modalità comunicativa: una forma possibile per esprimere il proprio vissuto e richiedere aiuto quando non si trova ascolto in altri modi.
Occorre imparare a riconoscere tempestivamente i segnali precoci di disagio e sofferenza mentre talvolta occorre imparare a chiedere aiuto e affidarsi alle mani di un esperto che si occupa dei giovani e delle loro famiglie. Solo attraverso questi strumenti possiamo riprenderci la nostra responsabilità e dare una risposta concreta all’allarme della balena blu; serve inoltre fare rete e collaborare con tutti coloro che si occupano di adolescenza (insegnanti, allenatori, educatori…). Non dobbiamo essere vittime del panico ma protagonisti attivi della crescita dei più giovani.